Fino alla fine del mondo di Wim Wenders

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Fino alla fine del mondo di Wim Wenders

Ci sono film che si guardano e altri che si vivono. Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders appartiene alla seconda categoria. Pensato inizialmente per essere “il road movie per eccellenza” (massima espressione, quindi, del genere più ampiamente esplorato dal cineasta), questo ambizioso progetto del regista tedesco si rivela un viaggio enciclopedico attraverso spazi non solo fisici e geografici, ma soprattutto mentali, spirituali e relazionali. Uscito nelle sale  in una versione largamente mutilata — che l’ha ridotto a due ore e mezza — il film ha ritrovato la sua forma più compiuta solo nel 2015, con la diffusione della director’s cut definitiva dalla durata di 288 minuti (quasi cinque ore), che permette di apprezzarne pienamente le sfumature tematiche e stilistiche. 

Nella cornice futuristica del 1999 (distopicamente tecnologica e avanzatissima, soprattutto in confronto al non lontano anno di produzione), Eugene (Sam Neill) narra i viaggi della ex fidanzata Claire Tourneur (Solveig Dommartin), donna inquieta e irrequieta, «innamorata dell’innamorarsi», che vaga per l’Europa in un clima di crescente paranoia globale. Lo scenario è apparentemente pre-apocalittico: nei notiziari si apprende che un satellite nucleare fuori controllo potrebbe precipitare sulla Terra e non c’è modo di prenderne il controllo. Claire si lancia all’inseguimento di uno sfuggente viaggiatore, Sam Farber (William Hurt), indagato per aver trafugato una tecnologia segreta. L’uomo porta con sé una telecamera capace di registrare le esperienze visive e mostrare i sogni, inventata dal padre scienziato per restituire una parvenza di normalità alla moglie ormai cieca. Un viaggio infinito, estenuante – che porta i tre protagonisti a cercarsi, ritrovarsi e abbandonarsi nuovamente – ha inizio da qui: dalla Francia all’Australia passando per Berlino, Mosca, Tokyo e Pechino, l’odissea (tanto fisica quanto interiore) in cui si ritrovano finisce per mostrare la fragilità del confine tra memoria, sogno e realtà. 

Wenders è chiaro: vagare, fino alla fine del mondo. Questo è il destino dell’umanità.

Claire è l’epitome dell’erranza contemporanea: non sa cosa cerca, ma sa che deve cercare. Le sue relazioni sono fatte di attese, tradimenti, fughe e inseguimenti — spesso più interiori che fisici. Nel ritmo ipnotico e rarefatto della seconda metà del racconto, il desolato deserto australiano si fa teatro di uno scenario cacotopico: i personaggi sono completamente isolati, e la tecnologia — che prometteva di  essere il collante per l’umanità in frantumi — diventa un’ossessione. L’umanità, oramai in grado di rivedere i propri sogni e ricordi, ne diventa schiava, cadendo nel limbo di una memoria esternalizzata dove il naturale processo di immaginazione viene sostituito dalla macchinosa ripetizione robotica. Le immagini registrate dalle telecamere diventano droghe visive, e i protagonisti, come in un’allucinazione collettiva, sembrano perdersi non solo nello spazio, ma in sé stessi; ognuno si chiude a guscio fino a perdere ogni forma di comunicazione sana. Così, il film abbandona ogni scopo stilistico per diventare una parabola sulla dipendenza dall’immagine e sulla perdita del contatto con il reale.

Fino alla fine del mondo rispetta le promesse del suo titolo. È la storia di un’odissea – vissuta dai personaggi e, insieme a loro, dalla troupe di Wim Wenders – che si trasforma progressivamente: da thriller futuristico si evolve in una riflessione filosofica sull’identità, la memoria e la percezione, fino a diventare un viaggio interiore che abbraccia l’intera condizione umana. Grazie alla narrazione stratificata e disorientante, il regista costruisce un mosaico narrativo che sfida la linearità dei tradizionali road movies — creando, così, il perfetto Cuore selvaggio wendersiano. La natura sorprendentemente profetica di questa pellicola contribuisce a renderla  un’opera considerabile ormai classico, da inserire con grande merito nella categoria dei film che, anticipando ampiamente i propri tempi, hanno saputo leggere con straordinaria lucidità il nostro rapporto con la tecnologia visiva, arrivando a predirre i danni dell’attuale sovraesposizione mediatica. 

Insomma, lo sappiamo da tanto: anche nella versione più corta, Fino alla fine del mondo è sempre stato un film che, paradossalmente, non finisce mai, ma continua a mutare, a essere riscoperto, rielaborato. È una meditazione sul tempo, sulla visione, sull’identità — e, a più di trent’anni dalla sua realizzazione,  resta un unicum nel panorama del cinema contemporaneo.

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Pubblicato il:

17 Giugno 2025

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