Europa Centrale di Gianluca Minucci
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Europa Centrale, l’esordio di Gianluca Minucci in concorso per la 42esima edizione del TFF, ci porta nel 1940, tra i vagoni angusti di un treno che attraversa un continente in subbuglio e sull’orlo della catastrofe. Il compagno Umberto Cassola (Paolo Pierobon) ha la missione di consegnare delle lettere riservate fino a Mosca, accompagnato da Julia (Catherine Berthoni de Laet), sua amante, e dalla figlia Olga (Angelica Kazankova). A sorvegliarlo, troviamo l’agente del Comintern László Molnar (Levente Molnàr), mentre due agenti dell’OVRA (la polizia politica fascista), l’ex comunista Guido Clerici (Tommaso Ragno) e la moglie Gerda (Matilde Vigna), cercano di intercettare i documenti.
Il regista, inquadrando in 4:3 il dramma ideologico del secolo breve, costruisce un intreccio febbricitante fatto di primi piani e spazi chiusi. La fotografia, fortemente espressionista, e la colonna sonora, un po’ ingombrante ma appassionata, cesellano l’ottima recitazione dei protagonisti, che si muove a cavallo di più lingue (francese, italiano, polacco, russo) con un’andatura esibita e volutamente caricaturale. I personaggi, infatti, risultano quasi archetipi di una narrazione che cerca di mostrare le macchie più brutali delle due ideologie, avendo il merito (forse indiretto) di parificarle nella critica, che resta in ogni caso piuttosto scarna e pittoresca – checché ne vogliano i difensori di un giudizio spesso fazioso e facilone, comunismo e fascismo restano entrambi dei miraggi illiberali, delle realtà storiche violente e annichilenti. Il raddoppiamento dei caratteri, maschile e femminile, cerca di esprimere le sfumature nefaste di quella che può essere definita, a tutti gli effetti, una tirannia dell’ideale. La gerarchia fagocitante di un’escatologia si sclerotizza e sovrasta il buonsenso, i sentimenti, il naturale rispetto per le visioni nemiche: la fedeltà al partito vince sull’amore, la devozione alla nazione è la prospettiva vergognosa per un gesto disperato – l’aborto. Tutti i personaggi appaiono rosi dal timore del tradimento, consunti dal fardello del segreto, dall’oppressione del sospetto, e se ne assiste alla disintegrazione. Il concetto di verità è infatti uno dei pochi perni concettuali che affiorano a fatica in questo ricercato esercizio d’estetica, un mischiotto di stili (dal cinema da camera allo spionistico cerebrale) e di spinte divergenti: l’importante non è la verità, essenziale è credere.
Emblematico è il dialogo tra il comunista Cassola e l’agente Molnar, interrotto dalla figlia Olga, autentica allegoria di una possibile chiave di lettura del film. La consolazione nella bontà di un’ideale che esige il trattamento incondizionato della fede in un oracolo è allora il sofisma sintomatico di gretti deviazionisti, incapaci di conciliare il sacro avvenire dell’utopia con il proprio dramma personale, e dunque rassegnati alla pluralità fatalista delle interpretazioni di un’unica e granitica certezza: «C’è una sola verità (Pravda) ed è quella del Partito». C’è anche spazio per l’onirico, che ha la funzione di decorare, rilassando il ritmo generalmente piuttosto concitato, gli intimi meandri di psicologie tanto distanti dalla contemporaneità da apparire quasi esotiche – dove trovare oggi, nei campi divertiti di una postmodernità confezionata in un autoreferenziale individualismo molle e annoiato, esempi di una tale fermezza morale, pronti al sacrificio, fosse anche per un’illusione?
Il finale, piuttosto intuibile da una fosca dinamica di spopolamento dell’ambiente narrativo che lo prepara fin dalla metà della pellicola, mostra la vena pulsante prima accennata: al massacro degli individui, sacrificati all’impersonalità del dovere, sopravvive soltanto l’Idea, impersonata da Olga.
Europa Centrale è un film ambizioso, specialmente nei tecnicismi. Dietro a un’estetica pirotecnica che fa buona parte del film, la narrazione appare però esile e priva di sostanza: perché questo titolo? Qual è la ragione per una tale scelta d’ambientazione? Il regista sembra più propenso a donare l’impronta di un carattere alla rappresentazione, piuttosto di sviscerarne le esigenze: una grande smania scenica, infine, mascherata dal fard della storia e della sua polvere oscura.
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