28 anni dopo di Danny Boyle

By /

Condividi su:

28 anni dopo di Danny Boyle

Dalle periferie metropolitane di una Londra deserta alla vastità boscosa di un Regno Unito ormai regredito. Per la regia di Danny Boyle, 28 anni dopo (2025) sequel dell’ormai cult 28 giorni dopo (2002)stravolge, evolve e riadatta l’infezione epidemica che, nel primo capitolo, aveva mutato la metropoli inglese in una discarica a cielo aperto, introducendo nuove estetiche nel cinema horror contemporaneo. Il regista inglese istituzionalizza l’apocalisse rendendola abitudinaria e spogliandola di qualsiasi artificio. Laddove l’infetto rappresentava l’anomalia, il cortocircuito, ora diventa normalità: un dato biologico e sociale con cui convivere, motivo di caccia per le comunità superstiti, come quella stanziata a Lindisfarne – ultimo baluardo di una civiltà agli estremi. L’infetto indossa definitivamente la maschera dello zombi (perché di zombi si è sempre trattato, alla fine), ma è uno zombi riformulato: striscia, corre, pensa, osserva. Se l’umanità regredisce a un tribalismo armato, il virus evolve, si adatta. L’infezione, più che degenerazione, è trasformazione. 

In questo contesto, è la storia di un bambino a guidare lo spettatore. Con lui, Boyle e lo sceneggiatore Alex Garland abbandonano – con qualche intoppo logico evidente – l’ottica disillusa e cinica di un denutrito Cillian Murphy per abbracciare quella di un ragazzino nato e cresciuto nel mondo post-contagio, per il quale la rovina non è catastrofe ma semplice realtàIn questa scelta si innesta una delle svolte più significative del film: 28 anni dopo diventa racconto di formazione, un coming-of-age distorto che ragiona apertamente sull’amore e la morte. Due estremi che si fronteggiano. Memento mori, ripete il personaggio interpretato da Ralph Fiennes – presunto dottore – che funge da bilancia morale e intellettuale in un contesto dove ogni riferimento è scomparso.  

A livello stilistico, Boyle riprende e rielabora le suggestioni più recenti del mondo videoludico, con la classificazione evolutiva degli infetti di The Last of Us che si riflette nei nuovi stadi della malattia, mentre l’estetica del rapporto vagabondo padre-figlio di God of War si incarna nei momenti di caccia iniziali. Boyle gioca con le attese dello spettatore, stravolge i canoni e l’estetica introdotta nel primo capitolo. La regia, pur evoluta e adattata ai tempi, conserva quell’approccio sperimentale e disorientante che aveva caratterizzato i suoi primi lavori: un uso nervoso e frammentato del montaggio, accostato a una colonna sonora abrasiva, spesso diegetica, che mescola elettronica, silenzi disturbanti e rumori ambientali. Non rinuncia al suo stile ruvido e viscerale, nonostante l’estetica di questo nuovo capitolo si presenti visibilmente più curata e meditata, lontana dall’orrore in digitale e urbanizzato di 28 giorni dopo, lì dove la sperimentazione non era un vezzo estetico, ma una necessità espressiva. 

Non tutto convince, certo: alcuni snodi narrativi risultano forzati o abbozzati, compressi nel minutaggio, e il film cede il suo spirito indie per dare spazio a un’attitudine più spiccatamente hollywoodiana. Tuttavia, 28 anni dopo riesce a distinguersi nella sua volontà di addentrarsi in nuovi contesti, mantenendo un approccio radicale e profondamente politico, forte di quell’autoironia riflessiva del regista inglese. Ad esempio, la Gran Bretagna in quarantena, isolata e ancora infetta mentre il mondo si evolve parallelamente, si costituisce come chiaro rimando alla situazione generatasi dalla Brexit. O ancora, l’attenzione volta all’emegere di una mascolinità tossica e dannosa in situazioni di precarietà sociale, dinamica già presente in 28 giorni dopo e necessariamente riproposta alla contemporaneità. Il cinema dell’orrore ha sempre parlato di noi. Può ancora farlo, anche quando ciò che vediamo sullo schermo sembra irrimediabilmente altro.  

Condividi su:

Pubblicato il:

21 Giugno 2025

Tag:

Consigliati per te