Vermiglio di Maura Delpero

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Vermiglio di Maura Delpero

Il corpo che cambia, l’incertezza, la paura del fallimento, la maternità. Ma anche il desiderio di libertà e di autonomia, l’impotenza davanti alla forza degli eventi, delle azioni altrui e del loro impatto, soprattutto in un contesto in cui si è consapevoli di rappresentare una voce spesso inascoltata. Maura Delpero – già autrice di un importante esordio alla regia, Maternal (2019) e nota per la sua attenzione all’indagine dell’identità e della condizione femminile nel 2024 ci regala Vermiglio, ora vincitore di 7 David di Donatello tra cui Miglior Film e Miglior Regia.

Vermiglio rappresenta uno sguardo privato e confidenziale all’interno di una famiglia che la regista conosce benissimo: la sua. L’opera – basata sulle memorie di suo padre, arrivatole in sogno prima della stesura della sceneggiatura – fa uso di una narrazione e una fotografia lineari e naturali, che incorniciano i componenti di una numerosa famiglia all’interno dei panorami mozzafiato della Val di Sole, nel Trentino Alto Adige, nel periodo della Seconda Guerra Mondiale.

Nonostante l’apparente semplicità sotto cui è nascosta, la storia è densa di temi che toccano l’esperienza universale (femminile e non) visti attraverso una lente vicina, intima, accudente. Le esperienze di vita di Adele (Roberta Rovelli) e delle figlie Lucia (Martina Scrinzi), Ada (Rachele Potrich), Flavia ( Anna Thaler) e del piccolo Dino (Patrick Gardener) diventano presto il punto centrale di una storia senza una vera trama, volta a narrare la normalità dei paeselli italiani durante un conflitto documentato quasi solo dalla prospettiva di chi l’ha combattuto. L’utilizzo di una regia mai invadente permette un approccio quasi amicale nei confronti delle scene, che lasciano uno spiraglio aperto per lo sguardo discreto di chi, dietro la macchina da presa e davanti allo schermo, ha la possibilità di sgusciare in punta di piedi all’interno di una quotidianità allo stesso tempo lontanissima e vicinissima alla nostra.

Rappresentando la prima donna a vincere un David per la Miglior Regia nella storia del premio, Delpero offre un ottimo esempio della potenza degli sguardi alternativi, puri, che hanno semplicemente voglia di raccontare (e raccontarsi) senza essere messi sotto lenti filtrate da preconcetti e aspettative. L’approccio visivo e scrittorio sensibile di Vermiglio va a scardinare la raffigurazione tradizionale e bidimensionale delle donne, che spesso tende alla loro oggettificazione e sessualizzazione – processo che finisce col limitare la complessità emotiva e psicologica dei personaggi, impedendo un’esplorazione efficace della loro psiche. La resa finale delle protagoniste, le quali, nonostante vivano in un contesto di fortissima sottomissione e limitazioni del libero arbitrio, non sono mai ridotte a oggetti passivi (ma sono i soggetti attivi nella loro vita) risulta verosimile, reale.

In questo contesto, Vermiglio si inserisce come una riflessione potente e sfaccettata sul corpo, la maternità e le relazioni interpersonali, in un universo cinematografico dove l’esperienza femminile è al centro, indagata in modo attento e mai giudicante.

Nonostante la fortissima presenza di una voce mulìebre, le vite di Cesare (Tommaso Ragno), erudito padre di famiglia, e del soldato Pietro (Giuseppe De Domenico) rappresentano un punto cardine nell’analisi delle esperienze di guerra che Vermiglio fornisce. Il primo è un intellettuale anziano, rigido maestro del paese particolarmente severo con i figli; il genero, Pietro, è un semplice siciliano reduce del campo di battaglia, portatore di prospettive lontane e causa scatenante di sentimenti e pettegolezzi all’interno della comunità montana. Le loro strade si incontrano, ma loro non si capiscono né piacciono mai, distanti tanto nelle prospettive quanto nei caratteri.

Insomma, Maura Delpero dimostra con Vermiglio una grande abilità nel catturare la pudicizia e il calore tipici del microcosmo che è il paesino omonimo, copia e rappresentazione precisa di tutti quelli che caratterizzavano l’Italia di metà Novecento. La sua camera sa avvicinarsi ai corpi in modo discreto e delicato, come se cercasse di comprendere la loro essenza piuttosto che semplicemente mostrarli. I volti, spesso chiusi in inquadrature molto personali per poterne cogliere e isolare le sfumature emotive sincere, portano allo spettatore occhi pieni di vitalità nascosta (e spesso zittita) da un’esistenza esasperata dalle difficoltà di un periodo violento oltre ogni limite.

Dunque, ciò che distingue Vermiglio è la delicatezza con cui ci mostra la dicotomia di un contesto difficile, in cui il ricordo della guerra e le difficoltà del focolare hanno lo spazio per convivere in un percorso esplorato nelle sue frustrazioni e imperfezioni, in cui il desiderio di connessione e il conflitto che ne proviene sono due facce della stessa, umana medaglia.

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Pubblicato il:

9 Maggio 2025

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