No Other Land di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor ed Hamdan Ballal

Diretto da
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«Ho cominciato a filmare quando è cominciata la nostra fine»
No Other Land (2024), il documentario premio Oscar diretto, prodotto e completamente realizzato da un collettivo israelo-palestinese formato da Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor ed Hamdan Ballal, inizia così.
Per Basel, “casa” è sempre stata la regione di Masafer Yatta, una zona semi-desertica nelle colline della Cisgiordania meridionale, conosciuta per le sue case-grotte e l’unione della comunità. Basel ha sette anni quando comprende che i suoi genitori sono attivisti che combattono contro l’occupazione della propria terra, la stessa che dal XVIII secolo ospita le famiglie dei pastori e contadini arabo-palestinesi, divisi in venti villaggi sparsi in un’area di trenta chilometri quadrati. E che, da più di mezzo secolo, vive un periodo di profonda trasformazione dovuta alle occupazioni, agli sfratti e alle demolizioni da parte delle autorità di Israele, che, dopo 22 anni di processo iniquo nel suo tribunale nazionale, ha deciso che la zona palestinese fosse da destinarsi ad un poligono di addestramento dell’esercito israeliano. Come se non bastasse, accanto a Masafer Yatta è stata permessa dal governo occupante la costruzione di varie colonie illegali, costituite da gruppi di sostenitori delle distruzioni che, durante la notte, vandalizzano deliberatamente le abitazioni dei residenti arabi rubando loro i beni personali, senza privarsi di mettere in atto pesanti violenze fisiche nel processo.
Ormai adulto, Basel continua a battersi per il suo Paese, perseguendo la professione di attivista a tempo pieno. Nonostante la laurea in legge e l’esperienza di lavoro in territori israeliani per pagarsi gli studi, non ha possibilità di uscire dalla Cisgiordania, così come nessuno dei suoi connazionali. Anche se, in Cisgiordania, la maggior parte delle loro case ormai non esiste più. «Ci hanno resi stranieri nella nostra terra» è la frase che aleggia sempre di più all’interno delle comunità arabe.
No Other Land è un’opera cinematografica e sociologica potente, che, pur essendo oggetto di discussione a livello internazionale, contribuisce in modo significativo al dialogo globale sulla situazione palestinese, invitando gli spettatori a confrontarsi con le realtà complesse e spesso dolorose conflitto. Anche, e soprattutto, quelle non giornalmente mostrate dai media: la quotidianità dei rapporti famigliari, del pascolo degli animali, dei pasti condivisi tra vicini; ma anche le grida di una madre davanti al corpo del figlio paralizzato da uno sparo, il pianto dei bambini che vedono la propria vita sgretolarsi, la paura di chi, consapevole di protestare per il proprio diritto di vivere, sa che potrebbe essere arrestato da un momento all’altro. Quello della macchina da presa rappresenta uno sguardo viscerale, intimo e interno alla vicenda, in grado di mostrarci la grande sofferenza che scaturisce da un’espulsione ingiusta ed ingiustificata, parte di una problematica secolare di cui, in Occidente, si parla e si sa ancora troppo poco.
«Non abbiamo nessun altro posto dove andare» dice una donna davanti alla distruzione del suo quartiere, dando il titolo al documentario, «Soffriamo così perché è la nostra terra».
In una lotta che mima la resistenza partigiana, uno degli elementi che contraddistinguono No Other Land è la collaborazione tra attivisti palestinesi e israeliani all’interno del gruppo produttivo del documentario, che ne ha permesso una distribuzione internazionale indipendente (in contrasto con il rifiuto ricevuto delle case distributive estere) fino agli schermi della Berlinale e degli Oscar. L’improbabile relazione tra l’attivista palestinese Basel Adra e il giornalista israeliano Yuval Abraham funge da filo conduttore all’interno del film, rappresentando un atto simbolico di speranza in un contesto segnato dalla divisione e dal conflitto. La loro amicizia, intrecciata attorno al comune senso di giustizia e dedizione nel documentare la causa, guida lo spettatore nell’umanità delle comunità sfinite dalle guerre, sfigurate dalle armi e affamate di libertà. «Cosa ne pensi di quello che ci sta facendo il tuo Paese?» chiede un anziano a Yuval. «Secondo me è un crimine», risponde lui.
Ma allora qual è il motivo di questa barbarie?
No Other Land non dà una soluzione al quesito; si può perciò asserire che anche questo non sia il luogo adatto per farlo. Tuttavia, quello che mostra il documentario è una realtà – cruda e più vicina di quanto pensiamo – che, come minimo, obbliga chi ci si interfaccia a porsi delle domande sul ruolo politico delle proprie libertà e della necessità di lottare per difenderle.
C’è chi ritiene che il film possa presentare una visione parziale della situazione, priva di una contestualizzazione adeguata all’interno delle complessità politiche e storiche del conflitto. Ciononostante, è innegabile come questa pellicola abbia avuto e continui ad avere un impatto considerevole sull’onda di informazioni (in parte storpiate) che influiscono sulla discussione politica riguardante l’occupazione, suscitando dibattiti internazionali sul conflitto israelo-palestinese e sulle sue rappresentazioni a livello mediatico. Ed è altrettanto innegabile che, in uno sfondo di dolorosa violenza e vacillante sicurezza, No Other Land rappresenti una piccola lettera d’amore e speranza nei confronti della propria terra, della famiglia e degli amici – e della Palestina, che alla fine le racchiude tutte.
«Su questa terra esiste qualcosa per cui valga la pena vivere: su questa terra esiste la signora delle terre, la madre degli inizi e la madre delle fini. Il suo nome era Palestina, il suo nome è di nuovo Palestina. Mia signora: è proprio perché sei la mia signora, che sono degno di vivere.»
Mahmud Darwish, poeta palestinese
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