Les Enfants Rouges di Lofti Achour
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Le montagne che non ammaliano ma chiudono l’orizzonte, il sole dietro una coltre di nuvole che rievoca quello stesso territorio desertico che copre, una smisurata pioggia torrenziale, il sangue che cala dalla borsa e macchia la macchina da presa, le spighe di grano che si ergono in un territorio arido, un pallone che sbatte contro la macchina da presa in movimento. In Les Enfants Rouges di Lofti Achour, presentato nella sezione ‘Generazione Futura’ dell’ultimo Sottodiciotto Film Festival & Campus, ogni elemento visivo, invece di rivelare, occlude, si frappone fra noi e la realtà e contribuisce a costruire una narrazione in cui non esiste mai una visuale limpida, concreta, tangibile sul mondo, ma solo una sua scomposizione, frammentata, al limite dell’irraggiungibile.
L’unico appiglio a cui il pubblico può aggrapparsi è il giovane protagonista, Ashraf (Ali Helali), costretto da un gruppo di terroristi jihadisti a trasportare la testa mozzata del cugino maggiore Nizar (Yassine Samouni), ora divenuta un macabro e brutale avvertimento per la loro comunità a non osare più avventurarsi sul Monte Mghila. La sua forza emotiva dirompente, il suo sguardo spaesato ma deciso, il dente mancante, la sua rabbia trattenuta, sono i dettagli che ci ancorano a una storia che pare altrimenti inafferrabile. Siamo infatti in grado di vedere solo ciò di cui Ashraf è testimone. La narrazione è filtrata attraverso i suoi occhi, l’unico sopravvissuto, che resta inconsapevole della gravità e dell’orrore di ciò che è accaduto. Fino a quando non viene diffuso un video dell’assassinio di Nizar: solo in quel momento, la verità cruda e ineluttabile si fa strada, e il regista, abbandonando ogni mediazione, ci presenta in modo diretto, senza scadere mai in sensazionalismo, ciò che prima Ashraf aveva potuto solo intuire. Ora sono i fatti, spietati e inconfutabili, a imporsi con la loro brutale evidenza.
Così come il giovane Ashraf – e con lui, noi spettatori -, anche il ruolo stesso della comunità, e quindi della famiglia, viene progressivamente svelato nella sua fragilità, ridimensionato fino a venire mostrato incapace di adempiere al suo compito fondamentale di protezione. Addirittura una verità impossibile da smentire, come la capacità degli adulti di conoscere e avere una risposta a tutto – «Gli adulti sapranno cosa fare» si dirà a un certo punto – si rivelerà una cocente illusione, frantumata a contatto con la realtà. Un simile diniego giungerà poi dalle autorità, che si rivelano non solo impotenti, ma cinicamente distaccate.
Eppure, malgrado tutto, un filo sotterraneo di resistenza percorre l’intera opera, irradiandosi con forza nel cammino inquietante e al contempo straordinariamente umano di Ashraf. Il suo viaggio trascende infatti il piano fisico, e si trasforma in un’odissea interiore. Il suo ritorno a casa, il recupero del corpo del cugino, e infine la dolorosa partenza dalla comunità per sfuggire a un possibile nuovo assalto del nemico, si dispiegano come tappe di una meditazione intensa e necessaria, confrontandosi con l’abisso di un’umanità negata. La sua lotta non si riduce a una sopravvivenza: è un grido silenzioso e ardente, una rivendicazione di senso. E il suo percorso, come un’eco del film stesso, si fa metafora: il cinema, con la sua capacità di sondare l’oscurità, di illuminarla, anche se solo parzialmente, diviene arma contro il male, uno strumento per testimoniare, e quindi combattere, l’ingiustizia, per tessere una narrazione che oppone al vuoto, morale e esistenziale, l’urgenza di un’espressione artistica.
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