Here di Robert Zemeckis
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Nel 2014, anno della sua prima pubblicazione, il graphic novel scritto e disegnato da Richard McGuire Here sorprese la critica e i lettori appassionati della nona arte sconvolgendo le regole della narrazione fumettistica ai fini di un racconto contemplativo e senza tempo. Un’opera, questa, talmente alternativa e ingegnosa nella gestione delle vignette e nell’intavolazione del senso di lettura da dover scoraggiare, in linea di principio, qualsiasi tentativo di adattamento in altri media troppo distanti dalla naturale struttura del fumetto.
Venne allora accolta con timore e preoccupazione, insieme a un doveroso senso di curiosità, la notizia di una sua resa cinematografica ad opera di Robert Zemeckis, narratore di storie in quintessenza americane con l’impegno di restituire le peculiarità stilistiche dell’opera originale attraverso un’impostazione registica specifica: l’uso di una sola inquadratura fissa all’interno di un salotto, nel quale prendono vita i ricordi di diverse famiglie che, nel corso del tempo, hanno abitato la casa o il terreno su cui poggia. A distanza di dieci anni, i lettori del capolavoro di McGuire si riuniscono dunque in sala cinematografica, nella speranza di assistere a sequenze filmiche capaci almeno di riproporre il senso originario del fumetto.
Sotto diversi aspetti, la pellicola risulta essere ben realizzata. La performance degli attori, in particolar modo di Tom Hanks, Robin Wright, Kelly Reilly e Paul Bettany, convince pienamente, regalando un tour de force ricco di emozioni, seppur troppo scontato vista la grande varietà di film con simile approccio nel panorama hollywoodiano. Lo studio sulla messa in scena si rivela ottimo, con una direzione generale dei movimenti e del posizionamento degli oggetti di scena tanto efficace da rendere credibile la quasi totalità dei cambi di scenario con i loro stili e look peculiari.
L’elemento più interessante del racconto si riscontra nella sceneggiatura di Eric Roth e Zemeckis stesso, vero e forse unico elemento di originalità rispetto al racconto originale: a discapito dell’approccio più intellettualistico del fumetto, impermeabile alle singole storie dei personaggi, il film preferisce concentrarsi proprio sulle vicende degli uomini e delle donne che hanno dato vita all’abitazione, coinvolgendo lo spettatore in un classico racconto americano colmo di emozioni complesse, talvolta contradditorie, ma testimonianti una naturale bontà umana a fondo dell’immaginario culturale americano, elemento ricorrente nella filmografia del regista da 1964-Allarme a New York arrivano i Beatles (1978) a Forrest Gump (1994). In prima analisi, l’ultima fatica di Zemeckis sembra soddisfare quindi ogni aspettativa del pubblico, superando apparentemente lo scetticismo di chi si è preparato alla visione con pregiudizi e preconcetti.
Purtroppo, i tratti dolenti della pellicola cominciano a emergere quando si inizia ad analizzare la sua idea di fondo, soprattutto in relazione alla fonte originale. Se infatti il graphic novel presentava in una sola tavola altri riquadri più piccoli che, pur spezzando la composizione globale e introducendo nuovi piani narrativi sempre più prolifici, si articolavano tra loro in continuità fino a prendere posto in una linearità narrativa compiuta, il film decide di riproporre lo stesso espediente grafico solo per porre in raccordo le diverse sequenze del film, risultando una mera scelta di transizione di inquadrature in fase di montaggio. La resa filmica risulta quindi piuttosto deludente, con un semplice alternarsi di piani sequenza a figura intera che, seppur realizzati con indubbia perizia tecnica, vivono di una sconcertante vuotezza stilistica, riempita solo talvolta con guizzi anarchici di ritaglio interno all’inquadratura, puntualmente privi di ingegnosità narrativa. In fase di riflessione, potrebbero infine sopraggiungere due perplessità non indifferenti: in primo luogo, la mancanza di un montaggio alternato per mettere in relazione i vari riquadri, strumento utile per strutturare le molteplici narrazioni in maniera elegante e utilizzato inspiegabilmente solo in sparuti e brevissimi momenti; in secondo luogo, la sciagurata scelta di mettere improvvisamente in moto il punto di vista dell’inquadratura fissa, che si pone in contraddizione con il senso stesso della struttura filmica, senza apportare alcun aggiunta narrativa significativa.
In ultima analisi, l’ultima opera di Zemeckis si presenta solo come un prodotto ben confezionato, realizzato con cura nelle componenti tecniche, ma privo di uno stile narrativo coerente alle intuizioni di McGuire e sostanzialmente povero di contenuto. In un momento storico del cinema ossessionato dagli adattamenti più svariati, non sembra essere questa l’operazione artistica migliore per sanare la febbre dei cinecomics o nutrirla di nuova linfa vitale. Nel momento in cui si sceglie di trasporre un’opera dal contenuto e dalla forma radicalmente originali, si dovrebbe forse avere maggior coraggio nell’adottare una resa stilistica e narrativa estrema, evitando vie di mezzo inconcludenti, degne solo di ambire alla mediocrità degli sforzi artistici che si prestano a essere dimenticati.
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