Dreams di Dag Johan Haugerud

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Dreams (2024) è un film che parla d’amore. Quello non corrisposto, per il quale quasi ci pentiamo. Quello intimo e allo stesso tempo platonico. L’amore che inganna, che pone un velo davanti agli occhi di chi lo prova. L’amore che fugge ancora prima di arrivare. Per una persona, ma anche per una madre, per una vita diversa da quella attuale. L’Orso d’oro della 75ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino dipinge un morbido ritratto di una diciassettenne turbata dall’arrivo di un sentimento inaspettato, che appanna la vista e affanna il cuore. Il tutto viene narrato proprio secondo gli scritti della protagonista, dando vita ad un flusso di pensieri continuo, un racconto privato. L’introspezione è una componente cardine nel film di Dag Johan Haugerud: la diciassettenne Johanne (Ella Øverbye) tenta costantemente di analizzare e indagare l’attrazione che prova per la sua insegnante di francese, chiedendosi se – anche dall’altra parte – ci sia un qualche tipo di proiezione amorosa. L’affetto che i due provano l’una per l’altra, tuttavia, funge quasi da MacGuffin; lì dove il film sembra costruire una storia d’amore, ci rivela nel finale una realtà comune a tutti gli aspetti della vita: il rapporto tra amore e famiglia, lavoro e quotidiano, arte e sentimento.
L’indagine affettiva affrontata in Dreams rappresenta il secondo tassello di una trilogia iniziata con Sex (2024) e conclusasi con Love (2024), un viaggio che ha come denominatore comune la rappresentazione e la ricerca riguardante le molteplici modalità con cui l’amore può manifestarsi, e come questo possa risultare più o meno impattante a seconda del periodo di vita in cui ne si fa esperienza. Se in Sex l’amore è solidità temporale, in Dreams è la scoperta di una dimensione inaspettata, improvvisa. Il primo amore, in poche parole. La verginità dei sentimenti raccontata con la delicatezza di un colore caldo, familiare. Il film ci culla nella continua infatuazione che Johanne tenta di esplorare, e gli sguardi accennati tra due corpi in connessione ci raccontano l’ineffabilità di uno stato d’animo: «So come si sente l’amore, ma non so come appare». È un ‘sogno’, appunto. Il film diventa così un modo per scomporre dinamiche relazionali e adolescenziali comuni a tutti noi, quelle che hanno come elemento chiave la novità, la visione di un amore impossibile a cui ci si cerca di avvicinare timidamente. Un’emozione che con la sua impulsività disorienta e confonde. Inganna, anche, filtrando la realtà attraverso uno sguardo che, pur trainato da un ardore incauto, appare autentico.
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