Touch di Baltasar Kormákur

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Touch di Baltasar Kormákur

 

 

«Il pesce in terra

non sa una parola

di giapponese.»

 

Touch, una carezza. Kristófer (Egill Ólafsson) vive nella sua Islanda, doppio dell’isola della memoria. Fatica, la coordinazione gli viene meno, cerca di tenere allenata la mente recitando numeri familiari e parole del suo passato come mantra di resistenza. Dopo una diagnosi di un principio di demenza senile, decide di chiudere il suo ristorante e, nell’emergenza di un lockdown incipiente, prende un biglietto con destinazione Londra per rintracciare le orme della giovinezza e il profumo irrisolto del suo grande amore di allora: Miko (Kōki), la figlia del gestore del ristorante giapponese dove, in reazione allo sprezzo dei suoi compagni universitari, aveva trovato posto come lavapiatti. Sono gli anni della Swinging London, il giovane Kristófer (Palmi Kormákur) è deluso dall’irregimento borghese della prestigiosa London School of Economics e cerca un’occasione per dare spazio vitale alle sue idee militanti. Lo trova sulla soglia del Nippon, dove il tocco fortuito e soave dell’amore prevarrà su quello grave della storia, offuscandolo nei sogni timidi e densi di due amanti.

Con un ritmo delicato e l’occhio inumidito di chi conosce il valore delle lontananze, Kormákur tesse l’incastro di due tempi che si rincorrono. La linea di fuga delle narrazioni la ricerca di Miko e l’intreccio del loro amore ha come punto focale uno strappo, prima aperto e poi ricucito, un duplice abbraccio, tocco di un’assenza su uno sguardo vergine ma gravido di futuro e rintocco su due vite segnate dalla presenza viva di un ricordo senza giustificazione, ferita intrusa, struggente confine tra esistenze connesse a distanza.

Miko è infatti un hibakusha, una sopravvissuta al disastro nucleare di Hiroshima, partorita dalla madre dopo lo scoppio della bomba, morta da lì a poco a causa delle radiazioni. Il padre, Takahashi (Masahiro Motoki), decide di lasciare Giappone per sfuggire lo stigma che incombe sui superstiti: infondatamente, si temeva che l’esposizione alle contaminazioni radioattive potesse determinare malattie ereditarie, e gli hibakusha vennero dunque discriminati nell’assunzione sul lavoro e, specialmente, nel matrimonio. La paura di Takahashi, vittima stessa della credenza, viene a essere allora l’innesco ossessivo della vicenda, che assume la forma di un contatto e di una propagazione tra due memorie, entrambe subite: la macchia tragica degli eventi di un’era e la fantasia spettrale e condivisa di due individui separati nell’epoca più spensierata e colma di avvenire, la gioventù.

 

Il pathos del racconto si avvale dello scarto tra le età del protagonista nelle due linee narrative. La malattia di Kristófer e la lentezza frammentata che gli procura si contrappongono al dinamismo dei suoi anni verdi, dove la fermezza degli ideali e la bramosia di immergersi in quella lingua e nella sua cultura divenutegli così care, offrono al pubblico uno specchio per una profonda immersione nella nostalgia. Il dolore del ritorno, allora, come possibilità di avere smarrito una casa, l’autentico approdo su cui abbandonarsi, piuttosto che la malinconia di lasciare un altrove. Kristófer è tornato in patria, ma ha perso la sua isola felice nell’incavo degli anni; e proprio quando la sua immagine sta per sbiadire, trova la forza di colmare la lacerazione nella sua esistenza e di forgiarne un’ultima figura, ritrovandone i frutti perduti nella fatalità.

Un raffinato e suggestivo tragitto contro l’oblio, tra epoche e culture assaporate con garbo e ironia, nel tepore dolceamaro di chi osa tenere con sé ciò che vale.

Forse la vita finisce quando le onde della memoria coprono e confondono i passi sulla sua terra. Forse però, per tutti noi, come quel pesce, smarrire la propria lingua potrebbe essere lieve: nel fango di un tempo terminale, un ultimo possibile trauma per ricrearne un’altra che evochi per sempre, col coraggio della conferma, gli abissi che saremo stati.

 

«Guardo nello spirito del passato

che è inciso nel mio cuore.

Questa dolce memoria, leggera e silenziosa,

mi fa visita giorno e notte:

quindi mai, mai dimenticare.»

 

 

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Pubblicato il:

9 Settembre 2024

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