Frankenstein di Guillermo del Toro

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Frankenstein di Guillermo del Toro

Guillermo del Toro aveva solo sette anni quando si innamorò della storia di Frankenstein, un sentimento condiviso da tanti e che ha attraversato intere generazioni. Una storia che non invecchia mai, capace di riportarci sempre allo stesso, eterno dubbio esistenziale: cosa significa essere umani?

In un’epoca in cui, tra social e intelligenza artificiale, questa domanda necessita con urgenza di una risposta, il regista presenta – alla Mostra internazionale del Cinema di Venezia – il suo Frankenstein (2025), prodotto da Netflix. Del Toro dà nuovamente vita al romanzo di Mary Shelley, – come già molti altri avevano fatto prima di lui, – ma con il suo sguardo, costruito in anni di carriera tra immaginari gotici e fiabeschi. Fin dall’annuncio, si sono generate grandi aspettative: chi meglio di Del Toro, maestro del fantastico, poteva dare forma a una creatura per definizione mostruosa – ma che, come sappiamo, è più umana del suo stesso creatore?

Nel gelo del Polo Nord, un gruppo di marinai, rimasto arenato nel ghiaccio, soccorre un uomo ferito da una mostruosa creatura che uccide chiunque provi ad aiutarlo. La vittima viene salvata, la creatura sembra sconfitta. Così, Victor Frankenstein, accolto e curato dal capitano dell’imbarcazione, inizia a raccontare la sua storia e di come sia riuscito a creare quel essere violento: assemblando dei pezzi umani è riuscito nell’impossibile, dare vita alla morte creando un uomo forte e perfetto, ma incontrollabile. Questa, però, è la sua storia, il suo punto di vista. Proprio lì, a metà film, il mostro irrompe nella cabina della nave e, invece di uccidere Victor e il Capitano, decide di raccontare la propria versione dei fatti.

Frankenstein di Guillermo Del Toro è un capolavoro visivo, ma è privo di una struttura narrativa davvero coinvolgente. Non è una questione di ritmo, ma di costruzione: la sceneggiatura risulta scontata e didascalica – e le immagini straordinarie, il trucco e i costumi impeccabili non compensano la mancanza dell’intensità emotiva che la storia originale è da sempre riuscita a esprimere. L’autore si concentra più sulla messa in scena, sulla forma da dare alle parole, e appesantisce il film con un costante voiceover che soffoca i momenti di silenzio, necessari – in questo caso – per entrare in contatto con l’intimità dei personaggi.

Solo Jacob Elordi riesce a infrangere questa distanza, restituendo la vulnerabilità del mostro, vero cuore della narrazione. Infatti, la creatura non è altro che un bambino che impara a sopravvivere imitando i suoi punti di riferimento: è un essere puro, buono e desideroso di amore e accoglienza, ma con una forza che non è capace di controllare, che esplode quando si sente minacciato e che gli sporca le mani di sangue. Nonostante le due ore e quaranta di durata, la storia sembra più lunga di quando non sia, complice un finale dal tono moralista che smorza ogni tensione. L’ultimo dialogo tra Victor e la creatura, ascoltato dal Capitano in silenzio, accompagna Frankenstein verso la morte, ma spiega, ancora una volta, ciò che il film aveva già reso evidente.

Frankenstein è un film che racconta di rimorso – quel rimorso così accecante che diventa l’unica forma di sopravvivenza. È potente, ma superficiale; esteticamente impeccabile, ma trattenuto. Resta sospeso tra la perfezione visiva e una riflessione sull’umanità che resta lontana. Alla fine rimane un piccolo vuoto, nella pancia, che disincanta lo spettatore dalla bellezza delle immagini.

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Pubblicato il:

28 Ottobre 2025

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