A Complete Unknown di James Mangold
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Bob Dylan, A Complete Unknown, il perfetto sconosciuto, soprattutto per le nuove generazioni, troppo distanti per poterlo ricordare. Forse è proprio questo il senso del film, che non offre nulla di nuovo sulla vita del cantautore e anzi propone una sequenza di eventi non cronologica priva dei legami temporali necessari. Per chi non è a conoscenza della vita dell’artista, il biopic di James Mangold sembra quasi trattare una storia plausibile, nonostante emerga un Dylan straordinariamente fortunato, sempre nel posto giusto al momento giusto, diventato famoso senza aiuto o influenze esterne. Nella realtà, i fatti andarono molto diversamente, ma questa non è la storia che il regista statunitense vuole raccontare. Il Bob presentato è un ragazzo misterioso, che tratte le donne con indifferenza, concentrato solo sulla scrittura dei suoi brani, che addirittura lo tengono sveglio di notte. Fumatore accanito, imperscrutabile, rivoluzionario e anticonformista. Avvicinarlo ai giovani, raccontare la sua rivoluzione e il motivo per cui i suoi testi siano oggi più attuali che mai sono stati i centri nevralgici attorno a cui si è costruita la sceneggiatura, ispirata al romanzo Dylan Goes Electric! (Il giorno in cui Bob Dylan prese la chitarra elettrica in italiano) di Elijah Wald. Poco importa, quindi, che la morte di Kennedy sia avvenuta dopo l’incisione del brano Times They Are a-Changin’, a dimostrazione di quanto il cantautore del Minnesota fosse capace di guardare più avanti. Poco importa che intere annate siano ridotte a tre scene o che le storie dei co-protagonisti siano sovrapposte e poco realistiche: Bob Dylan scrive e canta testi che, ieri come oggi, ci raccontano chi siamo e dove dovremmo andare, e lo fa a suon di armonica e chitarra. Di certo, però, si è smarrita una ricca complessità legata al periodo in cui la sua carriera ha avuto inizio, ridotto a un’eco distante, riportato solo in sottofondo da una voce televisiva, quando in realtà furono anni di straordinaria complessità e vivacità per gli Stati Uniti, ma nel film mera scenografia di contorno.
Uguale sorte è capitata alle figure femminili, ridotte a groupie del cantante e apparentemente incapaci di vivere senza di lui. Sylvie Russo (Elle Fanning), personaggio costruito sui contorni della prima fidanzata di Dylan, Suze Rotolo, presente nella copertina del primo album The Freewheelin’, è ritratta quale donna incapace di contenere le proprie emozioni ogni qual volta vede Bob su un palco, che lo insegue con sguardo disperato in ogni sua tappa. Questa visione non fa assolutamente giustizia alla sua reale figura. Indipendente e fortemente emancipata, da sempre impegnata nella difesa dei diritti delle persone marginalizzate, artista e pittrice di talento, ha sempre voluto discostarsi con determinazione dalla figura di Dylan per affermarsi come entità a sé stante, capace di esistere e prosperare senza il suo riflesso. Per di più, i suoi insegnamenti e le sue battaglie, hanno influenzato e arricchito il percorso artistico del cantautore: fu infatti lei ad introdurlo a figure del calibro di Paul Cézanne, Wassily Kandinsky, Bertolt Brecht e Antonin Artaud, Paul Verlaine e Arthur Rimbaud, e la canzone The Ballad of Emmett Till fu scritta dopo che lei gli raccontò la storia di un ragazzino afroamericano ucciso brutalmente in Mississippi nel 1955. In definitiva, non si può certo definire una semplice ragazza dalle lacrime facili, o una “A Complete Unknown”. Medesimo destino spetta alla figura di Joan Baez (Monica Barbaro), rappresentata in modo impreciso, conosciuta ma non adeguatamente valorizzata: la sentiamo cantate The House of the Rising Sun nello stesso piccolo locale in cui Bob Dylan suona per la prima volta, quando in realtà Baez riempiva teatri e non si esibiva più in ambienti così intimi da diverso tempo. Inoltre, la scena in cui corre tra le braccia di Dylan alla notizia di una possibile guerra atomica e alla crisi missilistica di Cuba riduce la sua figura a quella di una fangirl, incapace di resistere al fascino del cantautore, quando fu lei, cantando le sue canzoni al grande pubblico, a portargli i primi successi. Ma nel film, un’altra “A Complete Unknown”.
A salvarsi davvero in questo film è Timothee Chalamet, in grado di restituire un Bob Dylan estremamente realistico, al di là delle singole lezioni di chitarra e di canto. Ad aiutarlo, la sua recitazione e figura mimetica di belloccio maledetto di Hollywood, che gli permette di calarsi nel ruolo della Voice of generation con naturalezza. Si distingue anche Edward Norton, che restituisce una perfetta rappresentazione di Pete Seegers, almeno in parte in grado di risollevare gli animi dei fan decennali che in sala hanno viste deluse le loro aspettative.
In conclusione, A Complete Unknown risponde al suo stesso titolo e offre una visione di Bob Dylan quale perfetto sconosciuto, capace di incantare e far avvicinare anche le giovani generazioni a una musica che sembra solo in apparenza distante dai gusti e dalle battaglie odierne, ma che è invece in grado aiutarci a vivere e affrontare la complessità della realtà contemporanea. Quindi gli perdoniamo i salti temporali, i tagli e le imprecisioni, perché Bob Dylan è tornato sul grande schermo, e l’ha fatto con la forza dei suoi testi, insegnandoci ancora una volta che la musica, nelle mani giuste, è una delle armi più potenti che possiamo impugnare.
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