We Live in Time di John Crowley

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We Live in Time di John Crowley

Una storia pensata per piangere, che va incontro alla necessità di costanti stimoli dettati dai nuovi mezzi di fruizione. We Live in Time mette in scena la maggior parte dei topoi narrativi che possono portare le persone alle lacrime: la morte di una madre, di un padre, di una moglie, di un marito. Il tutto in soli 107 minuti. Il nuovo film di John Crowley ripercorre i momenti più intensi della storia di una coppia nata da un incidente stradale: non si segue una linea temporale precisa, la narrazione è frammentata e a ogni cambio di scena servono almeno un paio di secondi per orientarsi. La trama, tuttavia, resta semplice e, anche perdendo la cognizione del tempo, si avanza comunque verso un finale prevedibile e atteso. Uno stile ormai diffuso in molti film recenti, probabilmente utilizzato per adattarsi alle fruizioni rapide dei social network, adatte anche a un pubblico dalla soglia dell’attenzione estremamente bassa.

Non è una storia moderna, e per quanto cerchi di esserlo, inserendo una figura femminile, Almut (Florence Pugh), determinata e indipendente, addirittura bisessuale (rivoluzione!), la lotta all’eteronormatività resta incompiuta – nonostante l’assenza di un matrimonio finale. Il film ribalta gli schemi classici, con una donna che prende in mano la sua vita e un uomo che la osserva in lacrime, come già accadeva per Florence Pugh in Don’t Worry Darling (Wilde, 2022). Eppure, a tratti, si vorrebbe un Andrew Garfield meno vittima della sua malinconia, meno rubinetto rotto, e più capace di abbandonarsi al presente, come il titolo stesso del film sembrerebbe suggerire.

Rimane il grande dubbio: se Almut avesse scelto di rimuovere utero e ovaie, sarebbe ancora viva? Quanto di quella decisione è stato davvero autonomo e quanto, invece, influenzato dal desiderio irremovibile di Tobias (Andrew Garfield) di avere figli? E cosa ne sarebbe stato di lei se non fosse mai diventata madre? Sicuramente non ci avrebbe commosso, e sarebbe dunque svanito il senso stesso del film. Un’occasione mancata per esplorare tematiche certamente più moderne, sacrificate in favore di quelle lacrime così accuratamente ricercate dal regista. Il saluto finale, poi, è così prevedibile da risultare quasi insignificante. E per colmare questo vuoto emotivo, l’ultima scena tenta di riaccendere il magone ormai dissolto, strappando le ultime lacrime. Devo ammettere che ci riesce: una spettatrice accanto a me, appena finito il film, è scoppiata in un pianto che ha preoccupato persino l’amica. Si è ripresa in fretta, non preoccupatevi.

We Live in Time è una storia piacevole, ideale per una visione nel comfort di casa. Il cinema è consigliato solo per chi sente il bisogno di condividere il pianto con una platea di estranei, e forse è proprio questo il vero intento del film: farci commuovere all’unisono davanti al dolore (e alla sfortuna, direi) di una famiglia all’apparenza perfetta. Forse viviamo in un’epoca che ci ha prosciugato ogni lacrima, in cui la morte degli “altri” scivola via senza lasciare traccia, troppo distanti e troppo estranei a noi per farci davvero commuovere, ma alcuni modelli narrativi, se radicati nella nostra cultura bianco-occidentale, riescono ancora a smuovere corde profonde. O forse è solo il destino sfortunato di Andrew Garfield a straziarci: il nostro Spiderman è infatti condannato ancora una volta a un epilogo di solitudine con occhi velati di lacrime. Prima o poi lo avrai anche tu il tuo lieto fine Andrew, non mollare!

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Pubblicato il:

13 Febbraio 2025

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