Presence di Steven Soderbergh

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Steven Soderbergh ritorna al cinema con Presence (2025), primo approccio al genere horror del regista di Traffic (2000), Ocean’s Eleven (2001) e Magic Mike (2012). Reduce proprio dal terzo film sullo spogliarellista più famoso degli anni duemila, Soderbergh tenta ancora una volta di battere strade nuove per la sua carriera: una variegata collezione di commedie, thriller, drammi e, ovviamente, stilosi heist movie dai cast stellari. Il regista statunitense sembra sempre alla ricerca di nuovi stimoli, perciò era forse solo questione di tempo prima che vedessimo l’approdo agli oscuri porti dell’horror. Tuttavia, com’era prevedibile, Soderbergh decide di fare le cose a modo suo, scegliendo di sperimentare con il linguaggio e di girare il film tutto dal punto di vista della presenza che infesta questa pellicola: una soggettiva continua che non lascia via di fuga allo spettatore.
La presenza non parla, non ha nome né volto, non sa perché si trovi nella casa e l’unica cosa che può fare è osservare i nuovi inquilini, Rebecca e Chris (interpretati da Lucy Liu e Chris Sullivan) e i loro figli Tyler (Eddy Maday) e Chloe (Callina Liang). La presenza osserva la crisi coniugale tra i protagonisti, le complicazioni legali legate al lavoro di Rebecca, gli acclamati successi sportivi di Tyler e il buco nero in cui si trova Chloe: – depressa e chiusa in sé stessa dopo la morte della sua migliore amica che si pensa sia avvenuta per overdose. Il nuovo inquilino si lega in modo particolare alla ragazza, verso la quale comincia a mostrare comportamenti protettivi, dimostrandosi ostile nei confronti di Ryan (West Mulholland), amico di Tyler interessato a Chloe.
Presence ha da subito un ritmo spedito, non perde tempo (apprezzata la durata del film sotto all’ora e mezza) e subito inizia a costruire i rapporti all’interno del nucleo familiare – e questa forse è la cosa migliore del film. La predilezione spudorata di Lucy Liu per il figlio maschio, i rancori tra fratelli che esplodono, la fatica di un padre nel tenere uniti i pezzi di una vita che sente andare in frantumi sono molto credibili, grazie anche alle ottime interpretazioni di tutti gli attori. Il mondo esterno scompare, l’universo narrativo si chiude tra le mura domestiche dalle quali la presenza e lo spettatore non possono uscire, e che sembra imprigionino la famiglia stessa: non possono scappare dai loro problemi ma non riescono neanche a risolversi. Questo però non basta a nascondere i problemi che la sceneggiatura si porta dietro, a cominciare proprio dal rapporto tra fratelli. La sua natura puramente conflittuale sembra manchi di una scena che mostri lo sviluppo di questo rapporto, un legante che accompagni i personaggi verso il finale – che risulta invece un passaggio troppo netto.
All’interno della pellicola non mancano diverse goffaggini, ancora una volta in numero maggiore sul finale. Nel momento in cui l’orrore dovrebbe esplodere, la tensione viene castrata da uno spiegone degno di un villain cervellotico intento a svelare le sue macchinazioni, un momento decisamente fuori luogo per un personaggio “cattivo” così giovane e solfa già ampiamente orecchiata dagli amanti dell’horror. C’era del potenziale ma doveva seguire la regola del “keep it simple”, così avrebbe avuto molto più impatto e sarebbe stato davvero disturbante. Si può anche dire che Presence non sia un horror, ma un dramma con un elemento sovrannaturale – riconducibile all’iconografia moderna delle case stregate e delle presenze perseguitanti. E questa è esattamente la cosa che delude di più: è un film che non fa mai paura. La presenza non è una reale minaccia, la tensione si perde spesso per strada e il tutto risulta abbastanza prevedibile, perché l’impalcatura della storia è fin troppo visibile. Alla fine sembra di trovarsi davanti a un A ghost story (2017) misto a The Others (2001) ma senza la forza narrativa e visiva di questi due classici moderni, che per altro decostruivano davvero le storie di fantasmi. In Presence si riesce a decostruire in parte la tecnica, visto che alla fine le inquadrature sono tutte le piani sequenza realizzati anche abbastanza bene, mentre dal punto di vista narrativo non ci troviamo davanti a niente di nuovo. Si può apprezzare il tentativo di Soderbergh di dirigere un film di genere dandogli una sua identità e una forte impronta autoriale ma è difficile non credere che l’escamotage della soggettiva sia stato uno specchietto per le allodole in cerca di un “alt horror” in stile A24.
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