La città proibita di Gabriele Mainetti

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In una Roma vivace e multiculturale, due locali tengono attiva la vita del rione Esquilino: La città proibita, ristorante orientale che occulta i traffici illegali della malavita cinese, e la trattoria romana sua vicina, gestita dal cuoco Marcello (Enrico Borello) insieme all’aiuto di sua madre (Sabrina Ferilli) e del criminale Annibale (Marco Giallini). Questo quadretto al contempo colorato e ordinato verrà scosso dall’arrivo di Mei (Yaxi Liu), guerriera kung-fu pronta a innumerevoli scontri pur di giungere alla verità sulla scomparsa della sorella maggiore. La città proibita, dopo gli sconvolgenti Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) e Freaks Out (2021), porta avanti lo sguardo di Mainetti, ampliandolo verso nuovi orizzonti, ma rimanendo fedele alla missione artistica di partenza: omaggiare l’eredità della commedia all’italiana, inserendola in racconti appartenenti a generei distanti dai gusti dominanti a Cinecittà, come il superhero-movie o, come in questa occasione, il film di arti marziali.
La componente sicuramente più intrigante della pellicola si riscontra nello studio dei combattimenti. A livello di coreografia, è indiscutibile la bravura dei lottatori professionisti, e specialmente di Yaxi Liu, stunt, nonché controfigura, dell’attrice di Mulan (Liu Yifei) nel remake del classico Disney: la crudezza dei colpi inferti agli sventurati avversari si mescola alla naturale leggiadria dei suoi movimenti, riproponendo le danze fantastiche delle eroine hongkonghesi nelle produzioni Shaw Brothers, come Angela Mao o Kara Hui. La regia si rivela inoltre il miglior alleato a questo asset. Da grande appassionato e stimatore del cinema orientale, Mainetti coniuga con abilità e rispetto l’eterea spiritualità del kung fu classico insieme all’estrema estetica dell’action contemporaneo, ponendo in continuità King Hu e Lau Kar-Leung con la cinetica di Ip Man (Yip, 2008), The Man from Nowhere (Jeong-beom, 2010) e The Night comes for Us (Tjahjanto, 2018).
Dentro l’interminabile flusso di omaggi e citazioni, lo stile di Gareth Evans rimane il vero punto di riferimento per la quasi totalità della pellicola: le rotazioni a 90 gradi della macchina da presa, i movimenti di camera in parallela continuità con le pose degli stunt, nonché la violenza grafica e realistica degli scontri vengono effettuati seguendo pedissequamente la lezione di Merentau (2009) e The Raid (2011), evidenziando, grazie alle doti tecniche del regista romano, un nuovo gusto per il cinema di arti marziali in grado, si spera, di influenzare perfino le produzioni nostrane.
Sotto invece tutti gli altri aspetti, diversi sono i problemi della terza fatica di Mainetti. Innanzitutto, la gestione dei combattimenti nel racconto: troppo esiguo il loro numero in un film di questa tipologia, senza contare il loro andamento decrescente in termini di pathos e ispirazione coreografica. In secondo luogo, un intreccio poco originale che, seppur non offensivo e accettabile in un film di genere, si dimostra debole per via dei vari twists inutili e confusamente gestiti, oltre all’eccesso di drammaticità posticcia e di comicità arretrata. Se a ciò si aggiunge poi una rappresentazione caricaturale di Roma e del vivere romano al limite del sopportabile, culminante nell’anacronistica sequenza fuori luogo à la Wyler del giro nel centro di Roma sulla Lambretta, ci si ritrova interdetti di fronte a una pellicola tanto energica e adrenalinica in partenza, quanto spenta e desolante sul finale.
La città proibita si presenta dunque come un racconto vivace e pieno di voglia di sorprendere, sdoganando un genere inedito nel panorama italiano più recente per dargli nuova linfa. Nonostante le mirabili perizie registiche e l’innegabile coraggio nello sfidare nuovamente il gusto e le aspettative del pubblico italiano, Mainetti realizza un’opera solo in parte riuscita, senza articolare pienamente un’esperienza di intrattenimento sinceramente appagante con una storia di vendetta coerente, seria e pulita dagli ormai datati stilemi della comicità romanesca.
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