Honey Don’t di Ethan Coen

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Honey Don't di Ethan Coen

Dialogare con l’eredità iconica dei B movies significa prima di tutto tentare di recuperare influenze, generi, toni e atmosfere, così come un certo grado di radicalità contraddittoria, che non difficilmente si prestano a decadere a meri stereotipi. Ethan Coen con Honey Don’t (2025) conversa – sotto una prospettiva puramente autoriale e non produttiva, propensa ad enfatizzare una valenza espressiva – nuovamente con i film di serie B, come nel precedente Drive-Away Dolls (2024), accompagnato un’altra volta dalla sceneggiatrice (e anche moglie) Tricia Cook; ovvero recupera una parte dello spirito postmoderno che ha animato i suoi esordi cinematografici con cui, insieme al fratello, ha ridefinito l’immaginario americano degli anni Ottanta.

La determinazione di Ethan Coen di dar corso alla trilogia dei film lesbici di serie B, giunta al secondo titolo con Honey Don’t, risulta non poco ricca d’insidie. Nell’industria hollywoodiana l’indole embrionale dei fratelli Coen non esiste più. O meglio, sono stati volutamente snodati e ripuliti tutti i grovigli intricati che accompagnano i generi in gioco e l’exploitation, giungendo al rinnegamento di una ricca (e anche sacrosanta) complessità, che è venuta meno, dal lato significante, anche alla visione partecipativa – la parabola distributiva di Emilia Pérez (2025) è la dimostrazione tangibile e, non a caso, è nella Land of Dreams che ha avuto il più drammatico dei finali.

Dunque Ethan Coen e Tricia Cook mettono dentro la 24 ore – quella di Drive-Away Dolls, piena di dildos – la detective lesbica Honey O’Donahue (Margaret Qualley), la poliziotta MG Falcone (Aubrey Plaza), anche lei lesbica, il santone Drew Devlin (Chris Evans), la fixer francese Chère (Lera Abova, che è Mia Wallace ma anche Cher negli anni Sessanta), e una serie di teste di legno; e agitano e rimescolano il tutto a dovere. Fintanto, Coen e Cook, nel costruire l’universo affabulatorio, sono molto abili, laddove il primo è sempre stato un ottimo sceneggiatore e invero recupera la moquerie beffarda con il quale abitualmente guida l’eventualità dei suoi personaggi. La base per portare avanti con densità dialogica una mappatura topologica dei generi e della queer exploitation è tanta e pare quasi bollente.

L’impedimento in cui incappa Ethan Coen è nella rappresentazione della matassa ardente di cui è artefice – e non perché non ci sia nulla da mostrare, vale la pena ricordare la relazione personale che intercorre tra lui e Tricia Cook, dichiaratamente lesbica da sempre, con il quale condivide un matrimonio non tradizionale. Honey Don’t non va oltre le neanche tanto grottesche copulazioni tantriche, qualche dildos insaponato, il cruising lesbico all’interno di un bar e i ripetuti «I like girls» in risposta alle avance del detective Marty Metakawich (Charlie Day): è tutto qua, e del noir rimane l’iniziale intenzione che si logora alla ricerca di un nemico comune, nel rifiuto delle ormai testamentarie ossessioni (tormentate e anche giocose), come suggellano gli sguardi finali tra Honey e Chère. Accidenti! la Campbell’s Soup si è raffreddata.

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Pubblicato il:

22 Settembre 2025

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