Enzo di Robin Campillo

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Presentato come film d’apertura della Quinzaine des cinéastes di Cannes 2025, Enzo (2025) è l’ultimo progetto di Laurent Cantet, scomparso nel 2024, portato a termine con rispetto dal suo collaboratore di lunga data, Robin Campillo.
Enzo (Eloy Pohu) è un sedicenne cresciuto in un contesto agiato, che decide di rompere con le aspettative familiari e abbandonare il liceo per lavorare come apprendista muratore. La sua è una scelta radicale, apparentemente incomprensibile per chi lo circonda, ma motivata dalla necessità di trovare uno scopo concreto e tangibile, qualcosa che possa rimanere e sopravvivere all’uomo, come le statue che ama disegnare. Avvolto da un’atmosfera ovattata e da una luce dorata, Enzo rifiuta l’idea di seguire un percorso predefinito, vuole costruirsi un futuro sporcandosi le mani, senza protezioni, nemmeno i guanti da cantiere.
La sua famiglia incarna invece il mondo chiuso da cui cerca di fuggire. La madre (Élodie Bouchez), simbolo di una genitorialità aperta e progressista, fatica a cogliere la profondità del suo disagio; il padre, interpretato da un intenso Pierfrancesco Favino, è incapace di rinunciare alle sue aspettative e di accettare la decisione del figlio. Non appena Enzo rientra a casa, infatti, raccoglie i suoi vestiti e li mette subito a lavare, come se volesse cancellare lo sporco del cantiere e ricondurlo alla pulita borghesia da cui proviene.
Campillo traduce questa distanza insanabile tra i due mondi, insistendo su inquadrature in cui la visione di Enzo è ostruita da alberi, limitata da muri o vetrate di casa. Lui stesso, quando una coetanea gli chiede di ritrarla, risponde di non voler «costringere qualcuno a star fermo per ore». Un rifiuto che racconta il suo sentirsi costretto e immobile, un osservatore imprigionato nella sua gabbia di cristallo.
La regia rinuncia a ogni musica extradiegetica, lasciando che siano i suoni del mondo a raccontare il conflitto: il frinire dei grilli e la quiete artificiale della piscina familiare si scontrano con il rumore secco dei mattoni che battono, il ritmo vivo e concreto del lavoro. Nel cantiere, Enzo trova la vita e conosce Vlad (Maksym Slivinskyi), un ragazzo ucraino più grande, che incarna ciò che lui e la sua famiglia non sono mai riusciti a essere: concreti, determinati e consapevoli di ciò che si vuole. L’adolescente lo osserva con attrazione e lo idealizza fino a immaginare di seguirlo in Ucraina per combattere. Nel cantiere, nella vita reale, la guerra e i soldi sono argomenti che prendono prepotentemente il loro spazio, rimuovendo ogni filtro che da sempre ha protetto il giovane.
Enzo racconta con lucidità e delicatezza il senso di spaesamento di un adolescente in una società in cui tutto è performativo e competitivo. Tuttavia, è un’opera che rimane in superficie, lasciando allo spettatore poche possibilità di entrare in sintonia con il protagonista, come se anche noi fossimo costretti a guardarlo con la stessa distanza dei suoi genitori.
Il film tocca temi forti — la guerra, la crisi identitaria, la mascolinità, l’eredità familiare — ma lo fa sempre in modo superficiale. Anche Il legame con Vlad rimane improvviso e abbozzato, senza sviluppare una vera profondità emotiva, né nel loro rapporto né nella crescita del protagonista. Il racconto di formazione che il film cerca di costruire — tra richiami a Chiamami col tuo nome (Luca Guadagnino, 2017) e I segreti di Brokeback Mountain (Ang Lee, 2005) — resta incompiuto, capace di evocare e di sfiorare, ma mai di incidere, di trovare quella concretezza e tangibilità che lo stesso Enzo ricerca.
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