Elisa di Leonardo Di Costanzo

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Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Elisa (2025) è il nuovo film di Leonardo Di Costanzo, liberamente ispirato al libro Io volevo ucciderla dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali. Dopo Ariaferma (2021), che indaga le relazioni all’interno di un carcere panottico e tradizionale, il regista mette in scena una struttura di reclusione sperimentale nei boschi della Svizzera, in cui i detenuti vivono in piccoli chalet circondati dalla natura. I prigionieri possono passeggiare, assistere a lezioni universitarie, lavorare e fare colazione al bar come in un villaggio, dove solo le telecamere ricordano la natura penitenziaria del luogo.
La protagonista è Elisa (Barbara Ronchi), condannata a vent’anni di reclusione per l’omicidio della sorella, di cui però non ricorda nulla. In questa struttura, la protagonista vive in una dimensione sospesa, in cui solamente i grandi orologi della sua stanza scandiscono il passare del tempo. Circondata dagli enormi alberi del bosco e bloccata dalle finestre della struttura, Elisa guarda fuori non con desiderio di evasione, ma con la sensazione che quella distanza la protegga: dal giudizio dei giornali, dal rumore del mondo esterno e persino da sé stessa. Per questo motivo, non vuole fare domanda per la semilibertà.
Tuttavia, accetta di intraprendere un percorso psicologico con il criminologo Alaoui (Roschdy Zem), professore universitario, convinto che nessun criminale sia semplicemente un mostro. Attraverso le sue sedute, Elisa tenta di ricostruire i frammenti del suo passato: una famiglia incapace di cogliere il suo disagio, una madre che la considera un fallimento e l’insuccesso professionale della falegnameria che le è stata affidata. In questo ambiente, si è sentita in trappola, invisibile, oppressa dalla necessità di compiacere gli altri.
Le sedute, in un’atmosfera da In Treatment (2013-2017), costruite come dialoghi teatrali serrati, si alternano ai campi larghi della natura, dominati da silenzio e isolamento. Il percorso verso la consapevolezza è tortuoso, come la strada montana che porta al carcere, mentre la claustrofobia non è nelle mura, ma dentro Elisa. Con l’avanzare del percorso, la protagonista si confronta con la depressione e con la paura per ciò che è stata capace di fare: «Ammettere di avere paura è difficile», le confida il criminologo. Nel suo malessere, rifiuta di vedere il padre (Diego Ribon), che continua ad andarla a trovare, rinunciando all’altro figlio, incapace di accettare quella scelta di resilienza.
La combinazione tra l’ambientazione e la stratificazione della fotografia di Luca Bigazzi è il riflesso dell’emotività di Elisa, fino alla tempesta di neve che accompagna l’accettazione della sua colpa. Meno riuscito l’inserimento del personaggio interpretato da Valeria Golino: madre di un ragazzo ucciso da dei teppisti, spaventata dall’idea di dover perdonare, quando solo la rabbia la fa andare avanti. «Mi ha fatto sentire colpevole del mio rancore», rimprovera al criminologo. Una sottotrama che funziona come contraddittorio, ma che risulta forzata e scollegata dal flusso narrativo.
Il film di Di Costanzo è un’opera intensa che riflette sulla criminalità senza spettacolarizzarla, scegliendo di mostrare non un “mostro”, ma una donna fragile, che potrebbe essere “una di noi”. Nonostante l’interpretazione di Barbara Ronchi, Elisa però resta in superficie: manca un vero approfondimento sul rapporto con la sorella e sulla sua interiorità durante la ricostruzione del crimine. Lo spettatore rimane un passo indietro: comprende che le emozioni della protagonista sono comuni a tutti, ma non riesce a immedesimarsi. Se Elisa si è sentita invisibile, il film non riesce a farcela vedere davvero.
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