C’era una volta in Bhutan di Pawo Choyning Dorji

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C'era una volta in Bhutan di Pawo Choyning Dorji

15 dicembre 2006. Il re del Bhutan in carica annuncia la sua abdicazione, favorendo la transizione dello stato himalayano verso la democratizzazione, avviata nel 2005. Tutta la popolazione del villaggio contadino Ura, luogo scelto per le elezioni fittizie preparatorie organizzate da funzionari statali, patisce subito uno stato di disorientante ansia; nel mentre un collezionista d’armi americano contende un fucile antico a un monaco buddhista, incaricato dal maestro del suo recupero in vista di una misteriosa cerimonia. Pawo Choyning Dorji, regista indiano già attento ai temi legati alla storia e cultura del Bhutan nel film d’esordio Lunana – Il villaggio alla fine del mondo (2019), per far emergere le incertezze, le paure e le radiose speranze scaturenti da questo importante processo di transizione politica approccia il genere del film di fondazione, scegliendo tuttavia di sconvolgerne una componente fondamentale. Se infatti questa tipologia di racconto prevede solitamente la presenza di un protagonista prometeico che direziona il destino culturale di una nazione, C’era una volta in Bhutan appare popolato da persone deboli, incerte sulle solidità del percorso che intraprendono e manchevoli di una reale conclusione al loro sviluppo narrativo. Ciò vale in particolare per il monaco buddhista, motivato a completare da eroe la sua missione per ispirazione alla figura di un James Bond armato di fucile, ma inevitabilmente rallentato dai dubbi circa lo scopo di un incarico così atipico.

Inizialmente una mancanza fastidiosa e ingiustificata, questa costante assenza di una figura narrativa centrale si rivela l’elemento più interessante del racconto una volta individuato il suo vero protagonista, ossia il fucile. Interpretando infatti l’oggetto non come classico macguffin quanto piuttosto come metafora dello spirito democratico, si chiarisce il suo utilizzo ripetuto nel film: ogni personaggio, dai monaci ai funzionari statali, percepisce la potenza simbolica dell’arma, proprio perché ossessionato e preoccupato da ciò che può comportare l’instaurarsi di una democrazia ancora sconosciuta. Da ciò consegue il senso di assenza di una chiusura narrativa della storia, da intendere come enfasi sull’ansia per l’incredibile responsabilità dell’elezione e sull’incapacità di predire chiaramente se il cambiamento politico si rivelerà portatore di pace o, piuttosto, di violenti conflittiDorij offre dunque una lettura intelligente sui limiti, i rischi e le potenzialità della fondazione democratica senza tediare con seriosità e allarmismo, preferendo invece uno stile più scanzonato e mite, efficace nell’accompagnare lo spettatore alla riflessione con tranquillità. Ne risulta un film coinvolgente, che pur con qualche pecca e ingenuità nella strutturazione narrativa riesce a rigenerare lo spirito critico e la responsabilità civica necessari a intraprendere un percorso democratico.

di Marko.

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Pubblicato il:

4 Luglio 2024

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