Il Giorno dell’Incontro di Jack Huston

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Jack Huston, nipote del più noto regista John Huston, debutta dietro la macchina da presa con Il Giorno dell’Incontro (“Day of the Fight”), un dramma esistenziale ambientato nella polverosa New York degli anni ’80. Il film, con un manifesto richiamo al cortometraggio del 1951 di Stanley Kubrick, si avventura nel territorio battuto del cinema sulla boxe, dove, come spesso accade nel genere, la disciplina sportiva diventa metafora di un percorso umano più profondo, costellato da capitolazioni, dolore e riscatto.

Il protagonista è Mikey Flanagan, un ex campione dei pesi medi di origini irlandesi con il volto di Michael Pitt, qui decisamente in stato di grazia, con un’interpretazione energica e convincente, forse un po’ troppo carica per conferire al personaggio la fibra assoluta e vibrante della sincerità. Mikey sta per tornare sul ring al Madison Square Garden dopo dieci anni segnati da tragedie personali: il ritiro forzato dalla boxe, una spirale di alcolismo, un incidente che lo ha condotto in prigione per omicidio colposo e il naufragio del suo matrimonio. Nell’arco di una sola giornata, Mikey si immerge in una sorta di traversata interiore ed esteriore per affrontare e saldare i conti in sospeso della sua vita. Attraverso una serie di incontri con persone significative del suo passato – un amico di famiglia, un sacerdote, l’ex moglie, la figlia ormai adolescente e il padre violento – Mikey cerca di riconciliarsi con sé stesso e con il mondo.

Visivamente, Il Giorno dell’Incontro è una dichiarazione d’amore al cinema di una volta. Il bianco e nero grintoso e smagliante, firmato dal direttore della fotografia Peter Simonite, richiama inevitabilmente capolavori come Toro Scatenato di Martin Scorsese. La scelta cromatica, unita all’impiego di slow motion e flashback a colori, contribuisce a creare un’atmosfera sospesa tra realismo e il sentimento di un altrove al contempo gravoso e atteso. La colonna sonora gioca un ruolo fondamentale, con pezzi folk-rock come la struggente cover di Have You Ever Seen the Rain dei Creedence Clearwater Revival, interpretata dalla stessa Nicolette Robinson, che nel film veste i panni dell’ex moglie di Mikey. Quest’ultima scena, seppur frutto di una scelta di montaggio non proprio originale – la canzone è in un parallelo ampolloso e canonicamente strappalacrime con l’inizio dell’incontro ­– riesce comunque, insieme al resto delle scelte musicali, a dare smalto alle sequenze più elaborate e ad amplificare il pathos delle scene più intime, contribuendo a tratteggiare il tono generalmente malinconico dell’opera.

Michael Pitt offre appunto una performance intensa, anche se talvolta appesantita da una recitazione eccessivamente enfatizzata. Il suo Mikey è un uomo spezzato, un perdente consapevole dei propri errori e schiacciato dalle macchie di un passato che appare irredimibile, ma determinato a sfruttare l’ultima chance di trasfigurazione, nei suoi occhi e in quelli dei suoi cari. La sua fisicità, il volto segnato e lo sguardo bramoso di vita contribuiscono, nonostante qualche eccesso drammaturgico, a delineare il senso di prostrazione e la fragile umanità del protagonista.

Il film si avvale di un cast corale di alto livello. Steve Buscemi interpreta con grazia stanca l’amico di famiglia che aiuta Mikey a propiziare la sua avventura penitenziale, riconsegnandogli l’anello della madre morta suicida che sarà venduto per finanziare la scommessa sull’incontro. Ron Perlman è perfetto nel ruolo dell’allenatore burbero e paterno, mentre John Magaro offre un ritratto brioso dell’amico-prete confessore, in un dialogo serrato dove emerge tutta la drammaticità dell’impasse di una coscienza braccata dai sensi di colpa e altresì decisa a ricomporre i cocci di un’icona estinta in un’immagine rinnovata, seppur convulsa nello sforzo titanico di rompere la catena dei giudizi altrui. È infine Joe Pesci, nel ruolo del padre infermo e silenzioso, a regalare il momento più emotivamente vertiginoso del film, con una performance che racchiude tutta la complessità di un rapporto padre-figlio segnato da abusi e incomprensioni: per quanto avvolto e seppellito in una violenza imperscrutabile, l’amore sembra riemergere, negli occhi ormai inermi e condannati alla stasi, di fronte a una straziante nudità in cerca del perdono fatale in un addio.

Nonostante la sua potenza visiva ed emotiva, Il Giorno dell’Incontro non riesce a sottrarsi completamente ai cliché del genere. La boxe, da sempre metafora ideale per rappresentare la lotta intima dell’uomo, viene utilizzata qui con un’aderenza quasi religiosa ai suoi topos narrativi –l’autodistruzione del campione, il desiderio di redenzione e il combattimento come simbolo di vigore, resistenza e riabilitazione – e priva di riformulazioni singolari, fossero ironiche o pervase di un’aura poetica.

Il Giorno dell’Incontro è un’opera prima sincera e ambiziosa, che trova il suo carattere nella nostalgia cinematografica e in un’asciutta introspezione personale. Huston dimostra talento nel dirigere gli attori, i cui personaggi riescono a creare un’atmosfera venata da un comune struggimento ricamato attorno al viaggio catartico del protagonista, che risulta comunque fin troppo prevedibile e non scevro da ridondanze stilistiche e narrative. Un film adatto per una serata di sentimentalismo non troppo raffinato, capace di dare il giusto ma leggermente confezionato respiro alla domanda che fa da incipit al film: «fino a dove siamo risposti ad arrivare per colore che amiamo?». Se alcuni attimi o un solo giorno possono valere il senso di un’intera esistenza, qui troverete uno stralcio di risposta, avvitato sull’abnegazione e sul sacrificio offerti come estremo lascito nella speranza di una memoria rifondata, un dono di bontà sempre in bilico sugli abissi spalancati di un’inquietudine congenita, di una mancanza ereditata, di una perdita accaduta.

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Pubblicato il:

17 Dicembre 2024

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