Maria di Pablo Larraín
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Settembre 1977. Una figura femminile si trova accasciata a terra, un telo bianco la avvolge. È Maria Callas. Intorno a lei, appena rientrati a casa, il maggiordomo Ferruccio Mezzardi (Pierfrancesco Favino) e la governante, Bruna (Alba Rohrwacher). C’è silenzio. La voce di Maria si è spenta, e così la loro. L’opera ultima di Pablo Larraín è, in tutti i sensi, la conclusione di un viaggio partito nel 2016 con Jackie e proseguito nel 2021 con Spencer, nel quale il regista cileno costruisce una mitologia dentro la mitologia e ci offre una (de)costruzione dell’immagine-icona. Volti a noi noti vengono spogliati di qualsiasi tipo di infallibilità per privilegiare un racconto intimo e romanzato fatto di paure, cicatrici e fantasmi. Non è quindi un caso che in Maria, Larraín decida di mostrarci la persona e l’artista durante i suoi ultimi giorni a Parigi, in un momento della vita così fragile come quello che precede la morte; il regista cileno rompe l’incantesimo e decide ancora una volta di non restituirci la solita favola Hollywoodiana che, seppur drammatica, trova spesso la redenzione nel mito, sfuggendo alla morte. Ci viene offerta una decostruzione etimologica, oltre che personale: la signora Kennedy torna ad essere Jackie, Lady Diana diventa Spencer e Callas espande la sua figura a Maria. Un titolo che descrive il film, dove la negazione del cognome diviene una dichiarazione d’intenti e denota il desidero di discostarsi da quell’impenetrabile finzione di cui è solitamente schiava la storia – quella cinematografica, oltre che con la S maiuscola.
Un fil rouge lega queste tre opere e con Maria si raggiunge una maturità ulteriore. In questo film è presente tutto ciò che Pablo Larraín aveva introdotto nei precedenti capitoli: anzitutto, partendo da una panoramica generale, viene trattata una breve parentesi, molto precisa, nella vita di un’icona, indagando il suo rapporto con il proprio alter ego, con la propria immagine pubblica. Vi è poi la componente onirica, molto cara a Larraín, simbolo di analisi introspettiva e ricerca del proprio essere. Non manca infine il dolore della percezione, dell’oppressione mediatica come mezzo in grado di plasmare l’immagine e cambiare addirittura la persona. L’opera non è dunque un ritratto. Di quelli ce ne sono tanti. Non è un film che tenta di omaggiare la Callas, bensì di scoprire Maria, come donna e come artista. Angelina Jolie compie un lavoro chirurgico nel replicare e reinterpretare il tormento psicofisico della protagonista attraverso l’espressività degli occhi, il tremolio della gola e l’ormai flebile voce, soffocata dal gelo di quei sontuosi corridoi nel quale si sta lentamente e consapevolmente spegnendo. C’è poi Pierfrancesco Favino che, insieme ad Alba Rohrwacher, bilancia il tutto con una cura responsabile e consapevole dell’importanza del ruolo che ricoprono. Un ruolo che funge da contrappeso a un’anima forte ma instabile, persa nella sua ossessiva ricerca di una dimensione passata.
Larraín torna quindi a indagare l’animo nascosto di un’icona femminile lasciando ampio spazio a questioni di carattere psicologico. La regia ci accompagna in questa continua negazione del presente da parte di Maria, senza però assecondarla. Il cinema del regista cileno adotta un registro visivo al limite dal rievocare un contesto sognante, mescolando realtà e finzione come forse solo l’arte cinematografica è in grado di fare. Ci permette di osservare uno stato d’animo distruttivo senza romanticizzarlo, ma piuttosto mostrandocene la fragilità. Non c’è spazio per la Callas. Esiste solo Maria. Larraín lo sa, e la ritrae come tale: una persona comune, alla fine dei suo giorni.
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