L’Uovo dell’Angelo di Mamoru Oshii

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Esiste un confine sottile dove i film diventano liturgia, un limen oltre il quale il cinema non chiede più allo spettatore di comprendere, ma di esperire qualcosa di inintelleggibile. L’Uovo dell’Angelo (1985) sorge proprio in questo territorio, una rara cattedrale di silenzio sostenuta dalla regia onirica di Mamoru Oshii e dal tratto etereo di Yoshitaka Amano. Varcarne la soglia significa scivolare in un sogno febbrile, una realtà dalle atmosfere stranianti in cui la notte e la pioggia hanno ingoiato l’umanità.
Sotto un cielo dai colori innaturali, in una sequenza inziale che ricorda le piazze disabitate di De Chirico, Oshii introduce uno scenario metafisico: un’astronave – o forse un’entità superiore, Dio o una forma di coscienza universale? – simile a un occhio biomeccanico costellato di statue nello stile di H.R.Giger, compie una lenta manovra di atterraggio. Dopo questo incipit dal forte impatto visivo, il film svela una città fantasma dalle architetture gotiche e surreali perennemente oscurata dalle nubi, come un mondo immerso in acquario dal fondo scuro.
In tale contesto post-apocalittico incrociano le loro strade i due protagonisti: una bambina pallida, custode di un uovo misterioso, e un ragazzo armato di fucile a forma di croce. Mentre i due vagano lungo vicoli deserti, torme di pescatori senza volto compaiono per inseguire freneticamente dei pesci-ombra. Muovendosi come un’unica entità, scagliano arpioni contro muri e finestre, distruggendo la loro stessa città nel tentativo di catturare l’illusione di questi celacanti allegorici.
La sequenza racchiude la natura de L’Uovo dell’Angelo: un film che oppone al didascalismo la suggestione e la rarefazione dei dialoghi. La regia dilata le inquadrature fino allo spasimo, sospendendo il tempo e abbracciando l’immobilità solenne della forma tableau rispetto alla frenesia del montaggio moderno.
Il cuore pulsante dell’opera, tuttavia, risiede nel suo denso simbolismo cristiano, svuotato di ogni consolazione dogmatica per esplorare il tema dell’abbandono di Dio. Attraverso le enigmatiche figure senza nome dei protagonisti, il mito del diluvio universale viene riscritto: la colomba non è mai tornata, e forse le acque non si sono mai ritirate.
In questo vuoto religioso, il ruolo della bambina è centrale. Il suo proteggere l’uovo sotto la veste, scaldandolo con il proprio corpo, rievoca un rapporto madre-figlia ancestrale e virginale; mentre la sua fede si dimostra pura e primigenia nel “credere in qualcosa” a prescindere dalla sua dimostrabilità.
Attraverso questa mistica, Oshii costruisce un film complesso, che rifiuta un’interpretazione univoca. In un mondo dove Dio tace, forse è necessario abbandonare la devozione a un essere superiore per poter “aprire gli occhi”, riprendendo il possesso della propria vita. O forse i simboli cristologici del ragazzo – la croce e la benda sulle mani – suggeriscono la venuta di un nuovo redentore, pronto a rinsaldare traumaticamente l’unione tra uomini e divinità. Quel che appare certo è che non importa cosa contenga l’uovo: forse racchiude l’intero universo, forse è vuoto; ciò che è sacro è il guscio, la forma, il gesto della cura e della fede (il significante), che diviene superiore al contenuto (il significato).
L’Uovo dell’Angelo si (s)chiude lasciando un senso di vertigine che richiama il finale di Solaris (Andrej Tarkovskij, 1972): la macchina da presa si allontana fino a rivelare una nuova prospettiva geologica, suggerendo che forse siamo tutti incagliati sul relitto di una salvezza mai arrivata, uno scoglio in balia dell’oceano. Tramite un’opera così ermetica e totale, Oshii si iscrive alla ristretta schiera di autori la cui essenza è stata perfettamente catturata dalle parole del regista sovietico:
«Il cinema si divide principalmente in due categorie di registi. Da un lato, quelli che imitano e cercano di ricreare il mondo in cui vivono. Dall’altro, quelli che creano il proprio mondo. Coloro che creano il proprio mondo sono, di regola, i poeti».
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