Wicked: For Good di Jon M. Chu

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You’ll be with me like a handprint on my heart è una promessa e, insieme, una ferita aperta. Wicked: For Good raccoglie questa duplicità e la trasforma nel sigillo emotivo di un capitolo conclusivo che intraprende una strada più cupa, più adulta, più densa di conseguenze. Il film costruisce il suo equilibrio su un doppio movimento che unisce crescita interiore e destino collettivo: mentre la storia avanza verso una resa dei conti annunciata, il montaggio alternato fra Glinda (Ariana Grande) ed Elphaba (Cynthia Erivo) accompagna la loro metamorfosi morale e sentimentale. Non si tratta unicamente di una scelta stilistica, ma di un procedimento atto a mostrare come le due vite continuino a scorrere in parallelo nonostante il progressivo allontanarsi delle protagoniste. Così, mentre Glinda si avvia verso un altare che incarna il suo sogno di essere finalmente “vista” e riconosciuta, Elphaba sprofonda nei sotterranei del Mago di Oz, scoprendo creature imprigionate, esperimenti crudeli e verità mai raccontate. Le due traiettorie, divergenti ma speculari, rivelano una società che premia l’immagine e punisce la verità, facendo coincidere l’assunzione di responsabilità di Elphaba con il trionfo, pubblico e amoroso, di Glinda.
Il Mago (un Jeff Goldblum magnetico, ironico e inquietante) incarna perfettamente il meccanismo che regge Oz: non conta ciò che è accaduto, ma ciò che una comunità accetta di credere. Le definizioni – eroe o traditore, liberatore o invasore – sopravvivono ai fatti reali, perché sono più semplici da manipolare; la società predilige semplificare piuttosto che confrontarsi con le ambiguità morali che la rispecchiano. Ed è proprio in questa consapevolezza che Elphaba porta a compimento la sua evoluzione, comprendendo che persino la scelta più giusta può essere condannata e, tuttavia, decidendo ugualmente di compierla. In questo modo non diventa “malvagia”, diventa libera.
Dopo le scelte, arrivano inevitabilmente le conseguenze. Shiz è ormai un ricordo lontano: Glinda vive nella sua bolla rosa e dorata, Elphaba nascosta nella foresta. La loro separazione non è un espediente narrativo, ma la conclusione inevitabile di un legame che resta il centro pulsante dell’intero film: un rapporto che evolve, s’incrina e si ricompone attraverso lo sguardo, il silenzio, la distanza.
Cynthia Erivo e Ariana Grande sorreggono ogni svolta con interpretazioni di valore, in grado di unire l’accuratezza emotiva a una vocalità che diventa estensione del corpo. Erivo dà vita ad un’Elphaba combattuta tra furia, vulnerabilità e senso di giustizia che le consuma la pelle, mentre Grande sorprende per la capacità di trasformare il personaggio di Glinda. L’apparente frivolezza iniziale lascia spazio alla consapevolezza di una donna matura che comprende finalmente peso e costo della bontà. In linea con il mutamento del carattere, la sua stessa linea vocale si fa narrazione, mascherando quando tocca gli acuti e rivelando quando scende nel registro grave.
Wicked: For Good, pur rinunciando allo sfarzo visivo del primo capitolo, acquista una profondità nuova. È più politico e radicale nel parlare di manipolazione, consenso e desiderio di appartenenza, ma conserva un’anima fiabesca che riporta in sala un senso di meraviglia condivisa. Nelle sale gremite di volti truccati di verde o abiti rosa scintillanti, tra risate, singhiozzi e applausi, il film ricorda come il cinema possa ancora trasformarsi in un’esperienza collettiva, capace di unire gli spettatori attraverso le emozioni dei personaggi.
Raccontare Oz attraverso gli occhi di Elphaba e Glinda significa anche ribaltare il mito. Dorothy appare, ma il suo volto non viene mai mostrato: la sua versione l’abbiamo ascoltata per decenni, ora, finalmente, la storia appartiene a chi è stato frainteso o allontanato dalla narrazione dominante. Il film diventa così un monito luminoso e doloroso su come il desiderio di essere amati possa trasformarci – nel bene e nel male – e su come le scelte, una volta compiute, definiscano chi siamo. Wicked: For Good restituisce profondità a un immaginario antico e, come un’impronta sul cuore, continua a risuonare ben oltre l’ultima nota.
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