Le città di pianura di Francesco Sossai

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Il cinema italiano è in crisi – un ritornello che si ripete ormai da almeno trent’anni. Le cause le conosciamo e all’orizzonte non si intravedono tempi migliori. Ma arrendersi al fatalismo non ha mai portato a nulla, e alcuni autori cercano ancora di districarsi tra le macerie di un’industria morente per dimostrare che il cinema italiano si può ancora fare. Presentato al Festival di Cannes 2025, Le città di pianura è il secondo lungometraggio di Francesco Sossai, un road movie alcolico che rifugge gli stereotipi delle commedie italiane post anni duemila per raccontare i veri personaggi che abitano il Nordest italiano. Il cast è tanto improbabile quanto geniale e vede tra i suoi principali interpreti: Filippo Scotti, protagonista di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Pierpaolo Capovilla, fondatore de Il Teatro degli Orrori, e poi Sergio Romano, Roberto Citran e Andrea Pennacchi, tutti e tre già al cinema nel bellissimo La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli.
Il film comincia dalla fine, dalla fine di una sbronza. Ma per Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla), due veraci cinquantenni spiantati, la parola fine non esiste, bisogna necessariamente “andare a bere l’ultima”. Partono così per un assurdo viaggio tra i bar dei monti fino in pianura, dove travolgono con la loro energia alcolica Giulio (Filippo Scotti), timido e inquadrato studente di architettura. Il ragazzo lentamente comprende cosa si nasconde dietro la malinconica svagatezza dei due uomini, perché sembrano affrontare la vita in maniera tanto superficiale e perché aspettano così arditamente il ritorno del vecchio amico Genio (Andrea Pennacchi). E forse troverà una nuova prospettiva con cui guardare il mondo, da un po’ più in alto.
Lo scheletro della trama segue una struttura ben precisa e consolidata: due, in questo caso tre, personaggi apparentemente incompatibili compiono un viaggio fuori dagli schemi che li porterà a conoscersi e a influenzarsi a vicenda. Ma il film si slega presto da certi passaggi codificati, e un apparente divagare prende il posto delle tappe narrative che ci si aspetterebbe di trovare in un film del genere. Le mete non vengono raggiunte, gli accordi non si rispettano, si cerca di ricordare il senso della vita che però sfugge costantemente. Insomma, l’improvvisazione detta il percorso sostenuta da una spontaneità etilica che contagia lo spettatore.
Fautori del contagio sono sicuramente Carlobianchi e Doriano, imperfetti, sconfitti ma dotati di una scorrettezza fanciullesca da personaggi monicelliani aggiornati ai tempi che corrono. Perfette incarnazioni di un secolo finito e deflagrato, di una generazione che ha fallito in pieno e rimane relegata a comparsa da bar di provincia. Rappresentante chi invece ha vent’anni oggi, Giulio non brilla certo dello stesso carisma dei suoi comprimari veneti ma riesce a portare sullo schermo una sensibilità delicata che funge da perfetto contraltare. Giulio assorbe tutto ciò che lo circonda e, proprio grazie a ciò e alla sua sincera passione per l’architettura – evitando inoltre sentimentalismi vuoti e pacchiani -, riesce ad assumere il ruolo di guida per Carlobianchi e Doriano nel momento in cui il ritorno del Genio prende una piega amara e sconfortante, quella di un ultimo e agognato sogno che si infrange su se stesso.
Francesco Sossai ha bene a mente l’elemento più importante per un road movie: i luoghi che i personaggi attraversano. Che siano bar per studenti, locali che sembrano usciti fuori da una ideale America degli anni ‘50 o la villa di un conte decaduto, tutti i luoghi raccontano la propria storia e hanno dignità di essere vissuti, anche solo per un bicchiere e due fette di salame. Il regista non relega mai il suo Veneto a cartolina di sfondo, non quindi semplice percorso da attraversare per giungere allo snodo successivo ma vero coprotagonista della storia, una sorta di cornice che diventa parte del dipinto e interagisce coi personaggi.
Con tutta questa carne al fuoco era facile perdersi qualcosa per strada. Carlobianchi e Doriano rubano sicuramente la scena, ma il primo sembra prendersi un po’ troppo spazio. Vengono infatti mostrate molte più sfaccettature della sua personalità, lasciando il compagno di bevute più abbozzato, pur rimanendo molto convincente. L’interpretazione di Filippo Scotti, invece, ogni tanto risulta legnosa e un po’ forzata, non lasciando trasparire molto dei turbamenti interiori del ragazzo. Ma sono tutti problemi minimi, perdonabili a un film che ha osato tanto. Eccezion fatta per le bestemmie censurate, unica vera sospensione dell’incredulità difficilmente accettabile, ma per la quale si può fare ben poco viste le regole ferree contro la blasfemia che ancora stringono questo paese.
Le città di pianura è un film che stupisce, sincero e spontaneo, un’esperienza positiva necessaria in questi tempi di cinismo cosmico. E se il già citato La valle dei sorrisi ha riacceso un piccolo faro sull’horror italiano questo film ci auguriamo che possa aprire nuove strade per la commedia.
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