Velluto blu di David Lynch

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Blue Velvet di David Lynch

« I discovered that if one looks a little closer at this beautiful world, there are always red ants underneath».

Anomalia nel cuore del cinema americano degli anni Ottanta e, al contempo, manifesto programmatico della poetica del suo autore, Velluto blu (1986) rappresenta la piena maturazione del linguaggio cinematografico di David Lynch. Dopo il complesso e soffocante percorso produttivo di Dune (1984), il regista torna a una dimensione più intima e radicale che, pur partendo dalle coordinate del noir e del thriller, scardina le fondamenta del racconto di genere per esplorare gli angoli più oscuri della psiche umana.

Se Eraserhead (1977) aveva introdotto un universo dichiaratamente onirico e surreale, Velluto blu  innesta il perturbante direttamente nel tessuto della realtà quotidiana, condensando in un’unica immagine evocativa una moltitudine di significati: sotto la facciata colorata e rassicurante della cittadina statunitense di Lumberton – con i giardini in fiore e i sorrisi cordiali dei suoi abitanti – fermenta una violenza primordiale, una perversione latente che striscia silenziosa in attesa di essere scoperta. In tale contesto l’elemento sonoro assume un ruolo centrale: Lynch lavora per accumulo, sovrapponendo immagini e suoni in un collage sensoriale che carica di un significato inconsueto il legame tra piano visivo e uditivo. Fin dalla sequenza iniziale, aperta dal brano Blue Velvet di Bobby Vinton, i rumori si insinuano all’interno di un ingannevole contesto idilliaco, creando un contrappunto alla colonna sonora sognante – ma con sottili vene di inquietudine – composta da Angelo Badalamenti.

Le scelte registiche contribuiscono alla creazione dell’atmosfera perturbante attraverso movimenti di macchina lenti e zoom quasi ipnotici che non si limitano a seguire l’azione dei personaggi, ma sembrano scrutarli interiormente. Per amplificare lo straniamento, Lynch impone allo spettatore un allineamento voyeuristico con lo sguardo del protagonista, Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan). L’armadio in cui il ragazzo si nasconde per spiare la cantante Dorothy Vallens (Isabella Rossellini) diventa allora un confessionale laico, un punto di osservazione privilegiato: dalle fessure è possibile osservare la discesa nelle pulsioni più inconfessabili, nate e alimentate dalla curiosità adolescenziale per la sessualità e dall’attrazione per la trasgressione.

È proprio in tale cortocircuito tra innocenza e morbosità che il film rivela la sua forza: le dinamiche interne ai vari triangoli amorosi del film non inscenano una lotta tra vertici antitetici e assoluti– salvezza e perdizione – ma definiscono la struttura di una membrana permeabile che consente ad ambienti separati di coesistere. Quando l’inserimento di un elemento esterno alla relazione di coppia modifica il suo precario equilibrio, la sottile patina si squarcia e rivela le perversioni represse dall’autocontrollo borghese.

Lynch racchiude magistralmente il microcosmo della provincia statunitense tra un incipit e un finale falsamente rasserenanti, lasciando che sia lo spazio centrale del film a mostrare tutte le idiosincrasie del sogno americano. Nella sua architettura narrativa, dunque, Velluto blu travalica la semplice dimensione della detective-story, trasformandosi in un’immersione estetico-psicologica: una discesa nell’inconscio che porta alla consapevolezza della malvagità insita nell’uomo o, perlomeno, della sua capacità in potenza di compiere atti malvagi. In questo senso, il film non si limita alla riflessione metacinematografica sul vedere, ma abbraccia interamente la dimensione esistenziale dell’animo umano, dove l’esortazione ad andare oltre la realtà apparente rivela la necessità  di rivolgere quello stesso sguardo verso di sé.

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Pubblicato il:

22 Settembre 2025

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