Spirit World – La festa delle lanterne di Eric Khoo

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Con un distaccato e metodico prologo tripartito, Spirit World – La festa delle lanterne presenta da subito i tre personaggi incaricati di reggere il racconto di Eric Khoo: l’ormai anziana cantante francese Claire Emery (Catherine Deneuve), il coetaneo fan giapponese Yuzo Nobusawa (Masaaki Sakai) e il figlio Hayato (Yutaka Takenouchi). Eppure, di lì a poco, a distanza di neanche una settimana l’uno dall’altro, i primi due esaleranno l’ultimo respiro, facendo convergere tutte le attenzioni sul più giovane Hayato, noto regista di film d’animazione in attesa di imbarcarsi in nuovo progetto.
Al contrario di quanto si possa pensare, però, i due neo-defunti non abbandoneranno lo schermo, ma rimarranno al fianco di Hayato durante il suo viaggio alla ricerca della madre mai conosciuta (Jun Fubuki). Come intrappolati in un limbo dedicato alle anime in attesa di attraversare l’ultima soglia – quella dell’aldilà – Claire e Yuzo seguiranno i passi del protagonista, cercando nel frattempo di elaborare il proprio lutto e quello dei cari che li hanno preceduti.
Spirit World concentra la sua curiosità su poche ma ben definite tematiche: la morte, intermezzo riflessivo e non epilogo permanente; la genitorialità, contemporaneamente fardello e benedizione; l’alcolismo, vero spettro da ricacciare. Per esaminare questi elementi, Khoo, da diversi anni il principale esponente del cinema di Singapore, decide di virare le drammatiche vicende della famiglia Nobusawa verso il fantasy proprio delle storie di fantasmi, probabilmente nel tentativo di far risuonare i turbamenti di questi personaggi al di qua dello schermo, in un tempo e uno spazio profondamente diversi.
Nonostante l’idea di una coesistenza terrena di anime e viventi risulti particolarmente affine alla religione e alla tradizione asiatica, negli ultimi anni sono occidentali i film che hanno meglio incapsulato il fascino misterioso di un mondo liminale ugualmente abitato da vivi e morti. Opere come Personal Shopper (Olivier Assayas, 2016), Storia di un fantasma (David Lowery, 2017) e Ghost Town Anthology (Denis Côté, 2019) si sono infatti contraddistinte per la loro capacità di ri-immaginare nuove possibilità di dialogo tra mondi distanti.
Spirit World, invece, al contrario dei suoi predecessori, fallisce nel perturbare e persuadere lo spettatore, costretto ad assistere inerme al percorso emotivo, privo di sussulti – se non per uno, che però rientra perfettamente nei cliché del caso –, affrontato dal protagonista. A subirne le conseguenze sono in primis Claire e Yuzo, le cui esplorazioni vengono interrotte gradualmente per liberare l’intero palcoscenico alla catarsi oltremodo riconciliante e convenzionale di Hayato.
In definitiva, al regista, cui vanno tuttavia riconosciuti alcuni meriti, come quello di non aver ridotto il Giappone a una serie di cartoline metropolitane o bucoliche, è probabilmente mancato il coraggio di sperimentare nuove ricette all’interno di un canovaccio altrimenti decisamente superficiale e velleitario.
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