Diciannove di Giovanni Tortorici

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L’apatia di un giovane. Alla soglia dei vent’anni. Tutto sembra schiacciarti, gravitarti attorno: la maturità, le aspettative che ne conseguono, la futura ricerca di un posto. Dove poi? Nel mondo, forse. Trovare un tetto sotto cui mangiare – già quello sembra difficile. Si è vagabondi, a diciannove anni. Lo è Leonardo (Manfredi Marini), protagonista del film diretto da Giovanni Tortorici. Una dimensione, quella dei diciannove anni, che dialoga tra un’immaturità ancora presente – genuina, sconsiderata, fondamentale – e un’impegno verso la società, bramosa di sapere chi sei, cosa fai e perché. Il primo vero ponte della vita. Diciannove (2024) è un ritratto solitario di un ragazzo pieno di dubbi, alla scoperta di un sé ancora nascosto, senza forma. Si adatta a ogni recipiente, come l’acqua, nel tentativo di trovare una propria uniformità. Leonardo viaggia, scopre, esce dai confini materni della sua Palermo. Londra, Siena, Bologna, Torino – tra le luci delle discoteche, vecchi libri, università e compagni con cui risulta problematico integrare la propria individualità. Una bolla lo circonda, il presente lo respinge e decide quindi di ritrovarsi nel passato, nella letteratura italiana. Il film gioca su questo continuo dualismo, dove le anacronistiche letture e declamazioni letterarie di Leonardo vengono accompagnate dalla bestemmia quotidiana, dall’imprecazione per un fastidio, e il tappeto musicale classico si oppone all’ascolto diegetico della trap giovanile. Leonardo è un diciannovenne che oscilla tra le molteplici facce del proprio essere, sfocate e indefinite.

Giovanni Tortorici scrive e dirige questa pellicola come un diario, attraverso una componente intima e autobiografica, priva di qualsiasi canone descrittivo lineare: «Non avevo in mente nessuno schema narrativo, nessuna di quelle componenti tecniche che non mi interessavano per niente. […] anzi, spesso penso che un po’ banalizzino la storia. Sono andato sui ricordi, sulle sensazioni, rimanendo aderente alla realtà delle cose vissute.» dice Tortorici. 

Il film rimane coerente a questa trasgressione: dal montaggio alla scrittura – discontinui, come il vagabondo protagonista – fino alla stessa regia, capace di cambiare registro di sequenza in sequenza. C’è la stasi estiva, riflessiva, rohmeriana. C’è la giocosità del mezzo, un modo informe di pensare l’immagine, priva di abbellimenti sterili. La pellicola passa dall’immagine scarna del documentario a quella più sperimentale, curiosa e, se vogliamo, addirittura presuntuosa. L’opera di Tortorici implementa nel tono del film tutte le svariate discrepanze emotive del protagonista, dove i pensieri drastici e spesso autolesionisti di Leonardo ci vengono mostrati attraverso uno sguardo buffo, spassionato (in questo si riconoscono le influenze, più o meno conscie, del cinema schraderiano, con l’autoanalisi di un Travis Bickle moderno, quasi comico, immerso nel suo smarrimento sociale). Il tutto si amalgama in un girotondo esistenziale, schietto, di un cinema giovane e spregiudicato, alla stregua dei registi francesi della Nouvelle Vague, ricercatori dell’identità individuale e della scoperta di sé attraverso il gioco del cinema. Ed è proprio questo il film, alla fine: un gioco continuo, consapevole della propria incoscienza e, per questo, disordinato, come lo è la vita a diciannove anni. 

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Pubblicato il:

7 Marzo 2025

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