EBM – Electronic Body Movie di Pietro Anton

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Con EBM – Electronic Body Movie (2024), secondo capitolo di un’ideale trilogia dedicata alla musica elettronica anni ’80, iniziata con Italo Disco Legacy (2018) e prossima alla conclusione con la realizzazione del documentario dedicato alla scena Minimal Synth, Pietro Anton inspessisce il suo discorso sulla musica sintetica, crogiuolo di linguaggi e aspirazioni diverse che si congiungono all’interno di un ambiente in costante evoluzione, sempre teso alla sperimentazione.
Se dagli anni Novanta in poi diverrà difficile distinguere l’EBM dai generi con i quali spontaneamente si ibriderà – in particolare la techno e l’house –, la genesi è invece piuttosto chiara. Potendo fare affidamento a svariate interviste ai pionieri dell’electronic body music – tra i quali DAF, Front 242 e Liasons Dangereuses – il quadro si va delineando: nonostante già nei primi anni Ottanta i DAF stessero sperimentando con i sintetizzatori e le drum machine, la data con la quale si suole indicare l’inizio del genere è il 1984, quando un’altra band all’avanguardia, i Front 242, usa il termine electronic body music per identificare la propria musica. Sin a partire dal nome, l’EBM racchiude tutte le componenti che la caratterizzano. Come emerge dai racconti di Robert Görl e Gabi Delgado-López, rispettivamente batterista e frontman dei DAF, il tentativo dichiarato era quello di creare una connessione diretta e immediata tra le sonorità elettroniche e gli ascoltatori – nelle loro parole «talking to the body» –, inducendo così, in maniera quasi scientifica, il corpo a produrre un movimento incontrollato e costante.
Una pratica che, soprattutto agli inizi, porta il neonato genere a essere accostato impropriamente al movimento post-punk. Nonostante l’EBM aderisca sostanzialmente a esso dal punto di vista ideologico e culturale, il superamento delle classiche strumentazioni della musica rock – chitarre elettriche, bassi, batterie –, in favore di un sound futuristico dettato, come detto, dai sintetizzatori, dalle drum machine e dai sequencer, genera una vera e propria lotta intestina che si compirà direttamente nei club. Infatti, recependo l’abbandono degli strumenti tradizionali come una sorta di tradimento – che nelle dinamiche ricorda il fatidico passaggio di Bob Dylan dal folk al rock –, il pubblico arriverà in più occasioni allo scontro fisico con i musicisti.
A stupire e animare l’opera di Anton non sono però solo i racconti dei maestri, ma anche lo stile dello stesso regista. In armonia con la ricerca di un legame fisico-sonoro dell’EBM, Anton imbastisce una sua specifica partitura adoperando abilmente lo strumento cinematografico per eccellenza, il montaggio. La struttura documentaristica classica, suggerita dalla durata e dall’uso insistito delle cosiddette talking heads, viene così manipolata adottando un montaggio ipercinetico che intercetta e instaura un rapporto quasi subliminale con la mente dello spettatore. Alternanza costante di intervistati che sembrano finire le frasi l’uno dell’altro, tagli al limite del jump cut e la presenza di un tessuto sonoro costante contribuiscono quindi a dare vita a una visione esperienziale che eccede di gran lunga la mera esposizione contenutistica propria di una forma documentaristica spesso stantia.
Il programma completo del SYS ELEVEN è disponibile qui.
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