Oh, Canada – I tradimenti di Paul Schrader
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In Oh, Canada – I tradimenti, ultima fatica del quasi ottuagenario Paul Schrader, risuonano le sue recenti e controverse dichiarazioni a favore delle capacità creative dell’Intelligenza Artificiale nell’ambito della scrittura cinematografica, materia di cui Schrader può essere considerato senza alcuna remore uno dei grandi maestri del cinema americano e non solo. Nello sceneggiatore di Taxi Driver, quest’eco non si manifesta tanto nell’utilizzo della suddetta tecnologia, quanto piuttosto nel suo rapporto sempre mutevole e dinamico con il cinema. Che l’arte cinematografica, considerata da Schrader «uno stato di innovazione tecnologica permanente, che non resta mai stabile», sia posta al centro del discorso della sua ultima opera è evidente sin dall’incipit. Neanche il tempo di alzarsi (per l’ultima volta) dal letto, e Leonard Fife (Richard Gere, da giovane Jacob Elordi) si posiziona davanti alle videocamere – velocemente e meccanicamente installate dall’esigua troupe – alle quali sta per raccontare la storia della sua vita.
Leonard Fife, ormai malato terminale a causa di un tumore, era stato un’icona del cinema, un disertore statunitense trapiantato nella vicina Canada, luogo nel quale si era costruito una stimata carriera da documentarista d’inchiesta. Quella che per i suoi due allievi e registi del documentario sul loro maestro (Michael Imperioli e Victoria Hill) è un’innocua intervista, si trasforma per Leonard in un’ultima confessione prima dell’inevitabile morte. Il film, quello di Schrader, prende quindi a sua volta la forma di una seduta di autopsicanalisi, effetto cercato dai due registi grazie all’uso della tecnica di ripresa brevettata da Leonard stesso, la quale isola l’intervistato da ciò che lo circonda per portarlo a esprimere liberamente i suoi pensieri.
Schrader però è ancora più intransigente nell’accostare il cinema alla psicanalisi. Soprattutto nella riproposizione dei ricordi di Leonard si palesa la matrice mustenbergiana di Oh, Canada – I tradimenti. Se per lo psicologo e filosofo tedesco Hugo Münsterberg il cinema, tramite il montaggio e la conseguente frammentazione dei piani, dimostrava un funzionamento equiparabile al cervello umano, Schrader dà sfoggio di queste potenzialità innate. Ed ecco che il film, esattamente come l’esausta ed esangue mente di Leonard, si sfilaccia progressivamente: i ricordi si ripetono o si contraddicono, i volti si sostituiscono, il formato e i colori si alternano vertiginosamente.
Tutto ciò ci conduce alla vera essenza dell’opera, ovvero l’enigma che il protagonista stesso sta cercando di risolvere: qual è la sincera motivazione che lo ha portato a fuggire dagli Stati Uniti e dalla famiglia che aveva costruito? La sua carriera da documentarista d’inchiesta ha sempre fatto propendere per una consapevole scelta politica, ma le sue memorie lasciano invece intendere una ben più codarda evasione dai doveri della vita coniugale e da un futuro paurosamente arido. Del resto la vita di Leonard è stata segnata da una lunga sequela di viaggi mancanti e propositi non portati a termine: la fuga con l’amico verso la California interrotta prematuramente, il cambio di vita a Cuba mai concretizzatosi e il mancato acquisto della nuova casa familiare in Vermont, luogo che non raggiungerà mai.
In un finale memorabile, le ultime parole di Leonard prima di spirare dichiarano infine il debito a Quarto Potere, vero e proprio film-fantasma di Oh, Canada – I tradimenti. L’opera di Schrader, esattamente come il capolavoro di Orson Welles, non può quindi che concludersi con un nulla di fatto. Il ritratto univoco di una vita umana, sia esso oggettivo o soggettivo, esterno o interno, è un oggetto intrinsecamente irraggiungibile.
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