Tutto quello che resta di te di Cherien Dabis

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È proprio nei giorni dell’ennesimo trattato di pace unidirezionale che precedono la vigilia del 7 ottobre 2023 – contemporaneamente alla spedizione dei volontari della Flottilla diretti a Gaza – che esce in sala il film Tutto quello che resta di te (All that’s left of you; اللي باقي منك) scritto, diretto, co-prodotto e interpretato da Cherien Dabis. Nel frattempo, l’invasione di Israele procede tenace verso il suo settantottesimo compleanno.
Questo non è il tipico film-documentario; racconta una storia potente, ha le carte in regola per essere un film da Oscar. La sua rilevanza risiede nell’effetto flashforward, attraverso cui la vicenda palestinese non è più rappresentata come uno stato di emergenza, ma assume la forma di passato ormai segnato e irreparabile. Senza dubbio Tutto quello che resta di te segue la scia di colossi come The Schindler’s List (1993) o La zona di interesse (2023), in cui l’interpretazione dei fatti diventa universale e si trasforma in Storia. In senso pedagogico, il film si presenta quasi come uno strumento didattico volto a educare lo sguardo, guidando lo spettatore a una comprensione critica e consapevole della realtà rappresentata. Infatti questa volta, il punto di vista sembra quello della Storia stessa, impersonata dalle generazioni di una famiglia palestinese che vede il tempo travolgere il proprio popolo, fino ad annichilirlo quasi del tutto. Tuttavia, a proiezione finita, tra singhiozzi e bisbigli frustrati, in sala c’è anche chi resta indifferente. Come nelle mobilitazioni, così nel consumo di prodotti artistici, il grado di partecipazione emotiva e politica varia, e non tutti entrano in relazione critica con la causa palestinese. Da un punto di vista pratico, la struttura in quattro episodi consente la piena comprensione dei fatti. La storia si apre con il colpo subìto dal giovane Noor durante la prima Intifada del 1988 – la rivolta popolare palestinese contro l’occupazione israeliana – e con un immediato flashforward ai giorni nostri, quando sua madre Hanan (interpretata dalla stessa Dabis) inizia a raccontare.
Nella prima fase inizia la Nakba (“catastrofe”, in arabo), ovvero la creazione e imposizione dello Stato di Israele in Palestina alla fine del mandato britannico. Difatti, alla caduta dell’Impero Ottomano nel 1922, i territori della “Mezzaluna fertile” furono suddivisi tra Francia e Regno Unito, e quelli colonizzati subirono un’influenza “europea”. Di conseguenza, l’atmosfera riprodotta dall’arredo e dalle abitudini visibili nell’ambiente casalingo risulta familiare, ed è forse proprio per questo che appare dissonante vederla assaltata. La ripresa fissa sulla stanza principale della casa, attraverso cui si percepisce il crescendo di terrore dei bombardamenti, precede la drammatica separazione della famiglia. «Tanto vale lasciargli le chiavi di casa» dicono i palestinesi al consiglio comunale di Jaffa: i soldati sionisti derubano le proprietà private, i nuovi cittadini israeliani si appropriano di tutto. L’impossibilità palestinese di vincere, al di là della diplomazia o del diritto, è evidente: dall’impotenza politica alla distruzione dell’aranceto radicato da generazioni, dalla deumanizzazione all’espulsione forzata.
Nella seconda fase ci troviamo in Cisgiordania nel 1978: i palestinesi, ridotti a vivere come profughi nei territori rimanenti, iniziano ad abituarsi alle bombe e alle continue violenze. Il salto di trent’anni mostra la volontà di ricostruire una parvenza di stabilità, di riprendere la vita. Tuttavia, il senso di appartenenza alla comunità e alla famiglia e la forza di onorare le tradizioni – non bastano a colmare la desolazione. Il senso di privazione è sempre più insostenibile, culminando in un atto di violenza e umiliazione che marchia nuovamente e ineluttabilmente gli animi dei protagonisti.
Nella terza fase, 1988, la difficoltà a resistere mette a dura prova la famiglia, alla ricerca di una speranza per non arrendersi, prosciugati dal dolore di perdere ogni cosa, inclusa la dignità. Dieci anni dopo, l’offesa israeliana è decisa a limitare i movimenti dell’Intifada e, dopo la morte di Noor, i protagonisti sono costretti ad affrontare una questione morale alla radice di ogni conflitto: che valore hanno l’umanità e l’empatia sociale? L’imam (sacerdote mussulmano) risponde: «Resistere è anche interrompere la violenza. Non sottovalutate il potere della vostra umanità: è l’unica cosa che nessuno potrà mai portarvi via».
L’elemento innovativo del film risiede proprio in questo parallelismo tra la storia di un intero popolo e quella della famiglia di Sherif, Munira, Salim, Hanan e Noor. La terza generazione di palestinesi dopo l’inizio dell’occupazione e fondazione dello Stato di Israele sembra già nata in pericolo, condannata a un destino di morte. Il messaggio che cogliamo è che, dal 1948, per i palestinesi non c’è stata altra speranza che fuggire e perdere per sempre la loro terra d’origine, di fronte a un nemico insensibile e spietato. Emblematico è l’episodio all’ospedale israeliano, dove alla famiglia, ancora sconvolta e in attesa del responso medico, viene suggerita una surreale passeggiata turistica, tra le strade di quella che un tempo era la città palestinese di Haifa – ormai perduta per sempre, come l’amata Jaffa (oggi Tel Aviv). In sala nel 2025, The voice of Hind Rajab ci immerge in diretta nel terrore, mentre Tutto quello che resta di te ripercorre l’eco di ottant’anni di dolore, attraverso il ritmo della storia familiare e generazionale. È per questo che la sua potenza segna una narrazione nuova sulla questione palestinese: quella di un luogo e un popolo semplicemente cancellato. Il commovente finale ci invita a solennizzare: «Il mare è una metafora della lingua araba, che perirebbe se venisse dimenticata».
«Io sono il mare, nei miei abissi si trovano tesori. Hanno chiesto ai subacquei delle mie perle? Ma attenti, io perisco e lo stesso accade alle mie bellezze. E i vostri rimedi, sebbene limitati, sono la mia cura!»
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