The Brutalist di Brady Corbet

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Con The Brutalist, scritto insieme alla sceneggiatrice, e moglie, Mona Fastvold – come già The Childhood of a Leader (2015) e Vox Lux (2018) -, il regista ed ex attore Brady Corbet, ormai riluttante a comparire davanti alla macchina da presa dal 2014, firma un’opera monumentale che intreccia la vicenda dell’architetto ebreo ungherese László Tóth (Adrien Brody) e la Storia statunitense subito successiva la seconda guerra mondiale, con un’evocazione appena sussurrata della Terra Promessa, in una messinscena debordante, eccessiva, grandiosa, altisonante, che esonda dagli argini dell’industria cinematografica contemporanea. A là Cimino, si direbbe. Girato in 70mm VistaVision e dall’imponente durata di tre ore e mezza, The Brutalist fa della sua stessa forma un atto di ribellione. In un panorama cinematografico in cui la lunghezza dei film si dilata spesso senza giustificazione, l’opera di Corbet sceglie un approccio opposto: il suo flusso narrativo è infatti ininterrotto, privo di vertici e crolli improvvisi, ma saldo, inesorabile e come un fiume che non incontra ostacoli né deviazioni forzate, la narrazione si muove verso una meta densa e sfaccettata, un crocevia di vincoli esistenziali e stratificazioni tematiche che ne amplificano la risonanza.

Reinterpretazione de La fonte meravigliosa (1943) di Ayn Rand – fondatrice dell’oggettivismo, corrente filosofica che proclama la ricerca della propria felicità come supremo fine morale e la realizzazione produttiva come massima espressione dell’individuo -, l’opera-mondo di Corbet dipinge un’America costruita su un egoismo esistenziale, elevato a fondamento dell’ascesa individuale e giustificato come forza propulsiva del progresso storico e artistico. Questa spietatezza sociale e individuale sottesa al sogno americano non risparmia nessuno e si riflette in più personaggi della vicenda. Attila Molnár (Alessandro Nivola), cugino di László, ha anglicizzato il proprio cognome in Miller per integrarsi meglio nel Paese che lo ha accolto prima della guerra. Saldamente ancorato a un’esistenza borghese priva di scosse, non esita a cacciare il cugino dalla propria casa, persuaso dalle parole taglienti della moglie cattolica Audrey (Emma Laird). Un gesto che sancisce la sua definitiva adesione ai princìpi di un’America feroce ed escludente. Lo stesso vale per la famiglia Lee Van Buren, emblema di una classe privilegiata che si nutre dell’illusione del potere assoluto da poter esercitare senza scrupoli: il figlio Harry (Joe Alwyn) si lascia fuggire László senza comprenderne il valore, negandogli il compenso per la costruzione della prima biblioteca, ariosa e imponente; il padre Harrison (Guy Pearce) lo abbandona invece a un destino ingrato, e un tardivo risarcimento, in una sequenza a Carrara tanto spettacolare nella forma quanto forzata nella narrazione, non può sanare un’ingiustizia ormai consumata. L’illusione del sogno americano si infrange anche nella scelta della nipote di László, Zsófia (Raffey Cassidy), che decide di compiere l’Aliyah e di tornare nella terra madre, segnando la dissoluzione del cosmopolitismo sognato in primis da sua zia Erzsébet (una commovente Felicity Jones). L’America, il ‘paese del grande sogno’, si rivela per ciò che è realmente: un ingranaggio vorace che divora speranze, un fagocitatore seriale di illusioni che prima assapora e poi sputa senza chiedere scusa.

Ma è proprio László Tóth a incarnare con assoluta radicalità l’anima più profonda del film. Ostinatamente incapace di piegarsi a richieste che compromettano la sua visione, si rifiuta di modificare anche di un millimetro i suoi progetti, restando fedele a un brutalismo che nella sua fermezza travalica l’architettura – il monumentale centro ricreativo polivalente dedicato alla memoria della madre di Harrison, le cui forme si impongono con volumi accentuati, massicci, intransigenti e la potenza è sprigionata nella fusione tra estetismo e materiale grezzo – e dà vita a un’espressione di rigore artistico ed esistenziale.

E se le figure messe in scena da Corbet trovano un loro vigore, una coerenza interna, per quanto crudele, l’opera nel suo complesso difetta di una scrupolosa unitarietà espressiva. Non si tratta infatti di un film che «semplicemente esiste, epurato di ciò che è superfluo», come vengono descritte le creazioni a cui László conferisce forma e materia, bensì a un’opera che sembra fare della sovrabbondanza visionaria il proprio fulcro, in un magma estetizzante vasto fino allo sconfinamento, fatto di dialoghi illuminanti ma isolati, di sequenze spettacolari – con un utilizzo magniloquente dell’insieme aspera e delicata colonna sonora di Daniel Blumberg – più invasive che organiche. In questo scarto si consuma il limite più evidente del film: la mancanza di quella sintesi immaginifica – sia figurativa, sia concettuale – che il cinema non dovrebbe mai tradire.

«Conta la destinazione, non il viaggio», dichiarerà Zsófia alla fine del film durante la breve presentazione dello zio architetto durante la prima mostra internazionale di architettura di Venezia, nel 1980. Tuttavia, se si fosse prestata maggiore attenzione al viaggio, al processo che plasma la meta, l’opera avrebbe potuto acquistare una ricchezza che la sola destinazione non basta a conferire. Ciò che emerge è dunque una creazione mastodontica, multiforme, maestosa, imponente nella sua stessa grandiosità che, proprio in quanto monumento all’ambizione, manca di quella coerenza espressiva che avrebbe potuto elevarla. Il progetto filmico, pur magnificamente scolpito, perde la sua possibilità rivoluzionaria poiché priva dell’abilità di far definitivamente brillare quell’idea tanto decantata di essenzialità che avrebbe dovuto pervadere ogni sua pietra.

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Pubblicato il:

11 Febbraio 2025

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