Springsteen – Liberami dal nulla di Scott Cooper

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Springsteen - Liberami dal nulla di Scott Cooper

C’è sempre una strada in mezzo, nei racconti di Bruce Springsteen. Una linea d’asfalto che divide il già vissuto dal possibile, il rimorso dal riscatto. In Springsteen – Liberami dal nulla (2025) di Scott Cooper, quella strada diventa il luogo mentale dove il trentaduenne Springsteen (Jeremy Allen White) si ferma per la prima volta nella sua vita. Non corre, non canta, non suona per la folla: semplicemente cerca di capire chi è. «Io so chi è lei», gli dice un venditore d’auto. «Beato lei che lo sa», risponde lui. Dopo il successo travolgente di The River, Bruce è all’apice della sua carriera, ma anche sul bordo del precipizio. Il film – tratto dal libro di Warren Zanes – racconta quel momento sospeso in cui il “Boss” non è ancora la leggenda che conosciamo, ma nemmeno più il ragazzo di Freehold. È un uomo disorientato, consumato da un’industria che batte il ferro finché è caldo, e da una mente che non riesce a trovare pace. Cooper sceglie di non trasformare Liberami dal nulla in un film “su” Springsteen, ma in un film “con” Springsteen: un viaggio nella sua oscurità, dove il rock lascia spazio al silenzio.

Liberami dal nulla non cerca il pathos spettacolare. Cooper ci guida dentro la stanza del cantautore, tra una chitarra, un registratore a quattro piste e i fantasmi d’infanzia in bianco e nero. I primi piani di Jeremy Allen White sono fulmini di verità: metà volto nella luce calda, metà inghiottita dall’ombra. Ogni gesto, ogni sguardo trattenuto, diventa una confessione. Il presente è un luogo freddo, il passato un film d’epoca in cui il dolore e l’affetto si mescolano senza distinzione, seguendo la scia di Belfast (2021) di Kenneth Branagh. Cooper sottolinea come Nebraska sia un disco che parla a chi vive ai margini, a chi fatica a raggiungere il sogno americano e a chi sopravvive in una quiete disperazione: un lavoro che resta attuale anche oggi, perché preferisce l’umanità alla celebrazione della fama.

In questo paesaggio emotivo riaffiorano anche le parole di Flannery O’Connor: mentre Bruce sfoglia lentamente le pagine di un libro dell’autrice nella casa dove dà forma a Nebraska, ogni parola sembra avere il peso di un pensiero da custodire, un frammento di verità da far proprio. Più avanti, il film richiama una delle riflessioni di O’Connor sul senso di appartenenza: il luogo da cui si viene è scomparso, quello verso cui si pensava di andare non è mai esistito, e il presente non offre conforto se non si libera della propria prigionia. Non c’è davvero un posto in cui sentirsi a casa. Springsteen incarna queste parole: radici che non confortano, un futuro illusorio, un presente che opprime come una condanna. I riferimenti cinematografici del giovane Bruce diventano materia viva nel film. Badlands (1973) di Malick accende in lui l’immaginazione per Nebraska: la fuga dei protagonisti, la tensione tra innocenza e colpa, la poetica della strada che diventa giudice e conforto insieme. Allo stesso modo, The Night of the Hunter (1955) di Laughton aleggia tra le ombre: il predicatore con “LOVE” e “HATE” tatuati sulle dita diventa metafora della dualità interiore di Bruce, tra speranza e autodistruzione.

Jeremy Allen White non interpreta Springsteen: lo abita, con la voce roca, il corpo teso e lo sguardo che sfugge al mondo. Accanto a lui, Stephen Graham dà spessore al padre, creando un nucleo emotivo che diventa My Father’s House, luogo di origine e dolore, da cui si fugge e verso cui si torna. La registrazione dell’album diventa un atto quasi sacro: nessun tour, nessuna band, solo voce, chitarra e registratore. Cooper rappresenta queste sedute come piccoli esorcismi, gesti di sopravvivenza in un mondo che non concede tregua. È un biopic sull’uomo, non sulla star: la sua grandezza emerge nel confronto con l’oscurità, non nella celebrazione. E quando il racconto si chiude – con Springsteen che piange davanti al suo psicologo – non c’è redenzione né catarsi, solo un dolore che finalmente trova spazio per esistere. In quel silenzio sospeso, sembra risuonare, da qualche parte, la frase di Nebraska: «They wanted to know why I did what I did… well, sir, I guess there’s just a meanness in this world». Non un’ammissione, ma una presa d’atto. Forse la più onesta che Springsteen – e il film – potessero offrirci.

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Pubblicato il:

28 Ottobre 2025

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