La mia classe di Daniele Gaglianone

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Il quarto giorno del Torino Underground Cinefest ha offerto una delle esperienze più dense dell’intera rassegna: la proiezione de La mia classe (2013) di Daniele Gaglianone, seguita dalla masterclass del regista intitolata Oltre la soglia del visibile, dentro il confine del reale. Un dittico che ha messo in dialogo cinema e riflessione teorica, mostrando come il confine tra rappresentazione e realtà sia fragile e talvolta doloroso.
Il film, ispirato a Diario di un maestro (1973) di De Seta, vede Valerio Mastandrea nel ruolo di insegnante d’italiano per stranieri alle prese con una classe di veri studenti. Solo in apparenza semplice, l’opera rivela sin da subito la sua complessità, attraversata da tensioni narrative e morali. La storia si sviluppa con lezioni di italiano basate su un canovaccio e con episodi verosimili, come la perdita del permesso di soggiorno. A pochi giorni dalle riprese, però, uno degli studenti perde davvero il documento: ciò che era pensato come materiale narrativo diventa un problema etico concreto, che investe non solo il protagonista ma anche i cineasti. Da qui la decisione di rendere più evidente il cortocircuito tra realtà e finzione, mostrando in scena il regista e la troupe mentre interagiscono con gli studenti, fino a trasformare la pellicola in un meta-film che moltiplica i punti di vista e interroga lo spettatore sul senso stesso del raccontare.
Da questo scarto tra progetto e realtà nasce un’opera che non si limita a osservare ma si lascia ferire. Gaglianone e Mastandrea scelgono di ribaltare questo dolore in scena: nella finzione, lo studente viene semplicemente escluso dal set. Un gesto che smaschera l’ipocrisia di un sistema che dice di voler raccontare ma finisce per allontanare, per proteggersi dentro un perimetro sicuro.
Il risultato è un’opera delicata ma potente, che non offre facili risposte né consolazioni edificanti. Una frase, scritta e non improvvisata, risuona come un pugno nello stomaco: «Tanto quello che facciamo non serve a un cazzo». Non è nichilismo, ma lucidità. È rifiuto del didascalico. La mia classe ci ricorda che a volte il compito del cinema non è risolvere ma osservare, porsi domande. E quelle domande, dodici anni dopo l’uscita del film, restano drammaticamente attuali: la realtà dei migranti in Italia non è cambiata, e la disillusione pesa.
Nella masterclass che ha seguito la proiezione, Gaglianone ha ampliato e approfondito queste riflessioni. Per lui, guardare e filmare non è mai un atto neutro: è sempre relazione tra chi guarda e chi è guardato, un gioco di specchi in cui anche lo spettatore diventa parte integrante. Guardare negli occhi qualcuno è un atto politico: significa riconoscere l’altro, restituirgli esistenza e dignità. Citando Narciso e Cormac McCarthy, il regista ha ricordato come nello sguardo dell’altro abiti sempre anche un riflesso di noi stessi. Il cinema, in questo senso, non è mai semplice rappresentazione: è un modo di stare nel mondo, di rifletterlo e di riflettersi. Persino la rapidità di una scelta d’inquadratura non è casuale bensì è l’esito di una connessione, di fiducia, di un rapporto dialettico con chi si ha davanti. A partire da un suo documentario in Bosnia, Gaglianone ha mostrato come dietro ogni immagine ci sia una relazione viva, una responsabilità condivisa tra regista e protagonista.
Alla domanda che aleggiava per tutta la lezione – ha ancora senso fare cinema in un mondo così atroce? – Gaglianone ha risposto con fermezza: sì, perché il cinema è uno degli strumenti che ci permettono di restare umani.
La giornata al Torino Underground Cinefest ha così offerto non solo la visione di un film intenso e scomodo, ma anche una riflessione preziosa sul senso stesso del fare cinema oggi. La mia classe e la masterclass di Gaglianone ci hanno lasciato un’eredità comune: la necessità di guardare davvero, senza difese, senza scorciatoie, accettando la complessità dell’altro e la fragilità di noi stessi.
Il programma completo del TORINO UNDERGROUND CINEFEST è disponibile qui.
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