Avatar – Fuoco e cenere di James Cameron

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Avatar – Fuoco e Cenere svela le reali intenzioni di James Cameron per l’universo della saga Avatar. Se il primo ci ha ammaliato e fatto sognare un mondo diverso, dove la morale sociale, la consapevolezza ambientale e la pienezza spirituale sono i pilastri reggenti, il secondo ci aveva lasciati in sospeso. Interessante sicuramente, specie grazie alle tecnologie all’avanguardia sviluppate dal regista visionario, allargare la nostra “mappa” di luoghi e popoli Na’vi su Pandora. Tuttavia, il vero scopo del secondo film è chiaro solo adesso, di fronte al terzo: esso era un ponte che rivelava alcuni passaggi fondamentali per capire la nuova uscita. Il regista sfrutta la memoria del pubblico (specie quello di fiducia, attento alla deontologia dell’universo Avatar) per andare veloce, per ri-catapultarci nella nuova vicenda, e più di tre ore di proiezione volano, senza nemmeno rendersene conto. Si potrebbe quasi dire che questo terzo atto sia più dinamico che mai. La colonna sonora di Miley Cyrus, la sua voce calda e gli strumenti country, stimolano un senso di familiarità: un’aggiunta per sentirci in confidenza con questo mondo, ora che la storia prosegue. I prossimi due capitoli della saga potrebbero custodire il senso ultimo del percorso tracciato da James Cameron, invitando il pubblico a riflettere sulle questioni emerse, stratificate nel tempo, lungo un racconto che attraversa vent’anni.
Nel terzo film veniamo nuovamente schiacciati dalla rapacità umana e dalla sete di dominio che è stata capace di insediarsi ulteriormente, ora anche grazie alla natura massificata della colonia. L’unica salvezza è ancora l’indissolubile legame tra Natura e Umanità (nel senso largo del termine, considerato che ad interpretarlo siano i Na’vi e non il “Popolo del Cielo”, ovvero i colonizzatori provenienti dalla Terra). Un legame ancestrale, più profondo e razionale di ciò che guida il male degli uomini (deprivare il pianeta delle sue preziose risorse anche a costo di distruggere tutto e tutti). Nei primi due terzi del film siamo infatti avvolti in un’atmosfera di lutto. La guerra è in corso da anni e i popoli Na’vi soffrono per le loro perdite. È interessante osservare la capacità di accogliere diverse icone culturali nella rappresentazione universale del concetto di lutto: il pizzo vegetale per coprire il capo di chi è addolorato, il volo in solitaria per sentire nel vento le voci dei fratelli perduti, ma soprattutto la diffidenza crescente e la nostalgia della propria casa.
In questo scenario drammatico, ci viene presentata una nuova tribù di Na’vi, i Mangkwan. Il loro capo è Varang (Oona Chaplin), una donna forte e senza paura, che guida un popolo che ha smesso di credere nella Grande Madre Eywa quando il vulcano bruciò la loro foresta con un’eruzione di fuoco e lava, lasciandoli soli, tra la cenere. Ammaliata dalle armi da fuoco, in grado di generare “tuoni” a distanza, potenti e superiori alle armi indigene, si unisce al colonnello Quaritch (Stephen Lang), diventando complice della sua smania violenta. «Il fuoco è l’unica cosa pura», sostiene Varang, il cui popolo ricorda tribù cannibali e masochiste. Vediamo rappresentazioni di kamikaze, riti voodoo e prostrazioni a un potere che impaurisce attraverso l’uso di droghe, e non solo. Difatti, la novità è lo scopo diverso con cui la tsahìk (sacerdotessa) Varang utilizza la connessione tsaheylu (la treccia collegata al sistema neurale di tutta la Natura). “Io ti vedo” è il modo in cui i Na’vi esprimono empatia e comprensione, ma per Varang “vedere” attraverso la connessione neurale vuol dire essere in grado di sottomettere e traumatizzare. Sembra che il senso del sacro, cruciale per i Na’vi, non esista tra i Mangkwan: essi venerano la morte e i resti. Ma lo sappiamo, quando il fuoco divampa, l’escalation è brutale, e tutto brucia, lasciando sempre e solo cenere.
Vediamo altri due nuovi elementi: l’endosimbionte, un umano connesso a Eywa senza avere un avatar, e l’eletta, nata dal seme di Eywa con una missione speciale. È intorno a loro che si svolge la vicenda: gli umani vogliono l’endosimbionte per estrapolarne la formula (essi, infatti, possono colonizzare, ma non riescono a respirare l’aria del pianeta), mentre il colonnello Quaritch lo cerca perché è suo figlio. Quando sferrano l’attacco, il popolo dei Tulkun (animali marini dall’intelligenza pari o superiore a quella degli umani), nonostante il loro rifiuto per la violenza, decide di combattere a fianco dei popoli indigeni. Essi comprendono di essere il nuovo bersaglio dei “pelle rosa” (gli umani) quando finalmente credono alle gesta del tulkun reietto Payakan e del suo compagno fraterno Lo’ak (Britain Dalton), figlio di Jake (Sam Worthington) e Neytiri (Zoe Saldana). Ancora una volta, la famiglia, l’amicizia e la reciproca protezione con la Natura sono una fortezza: i valori vincenti, ricchi di spirito e virtù. Più simbolicamente, d’altra parte, emerge di nuovo l’incongruenza tra il potere della conoscenza scientifica (senza la quale i meccanismi politici sarebbero inermi) e la manipolazione violenta dell’economia barbara e della fame di potere. Nell’universo di Cameron, la spiritualità del Tutto viene in soccorso, ma la domanda per noi spettatori è: sulla Terra invece, nella nostra realtà, quale sarà l’antidoto all’ingiustizia e al sopruso?
«Nel mondo degli spiriti, noi invochiamo la forza degli antenati che hanno percorso la via prima di noi […] ma comunque vada, non sarà questa [del sangue] la via, troveremo un altro modo.» Il cuore del film è aiutarci a comprendere che le differenze e l’unione tra esse rappresentino sia la vera abbondanza, sia la vera potenza: «la via del mio amico è la mia via», tutto il resto è – e resterà solo – temporaneo squallore.
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