Scritto da

Demetra Birtone

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Antonio Pisapia è al ristorante con un’avvocata, è il loro primo appuntamento. Lei lo guarda intensamente, lecca il cucchiaino pieno di cioccolato e dice ad Antonio che non è un uomo banale: “non fa andare subito la conversazione sul passato, sul vissuto, e questo è ancora più interessante: si evita la noia.”

In queste battute Paolo Sorrentino, nel suo esordio L’uomo in più (2001), inizia a mettere in scena una storia che continuerà a raccontare per tutta la sua carriera. Come un’ossessione, una ricerca costante sul senso della vita che, di tanto in tanto, sembra avvicinarsi a una risposta, per poi allontanarsi subito dopo. Evidentemente una soluzione non esiste, “la realtà è scadente”.

Paolo Sorrentino nasce a Napoli il 31 maggio 1970 e rimane orfano di entrambi i genitori a 17 anni. Dopo il diploma studia alla Facoltà di Economia e Commercio, fino a maturare la consapevolezza che il suo posto nel mondo è il Cinema.

La sua carriera iniziò con grande successo: tre candidature al David di Donatello e la vittoria del Nastro d’Argento come miglior regista esordiente. Con L’uomo in più si percepì subito che il nome “Paolo Sorrentino” era destinato a lasciare il segno nella storia del cinema italiano.

Con Le conseguenze dell’amore (2004), quella sensazione divenne un dato di fatto. L’autore ci racconta la storia di Titta di Girolamo, un uomo che vive da otto anni in un albergo svizzero. E’ annoiato, la sua vita ormai è annullata da un passato che lo tiene in gabbia. Ma proprio immerso nel cemento armato, poco prima di morire, ricorda il suo migliore amico: Dino si trova da qualche parte sulle montagne. Non si vedono dall’infanzia, eppure lo sta pensando.

È in quella malinconia che il regista inizia a trovare una possibile risposta sul senso della vita, ancora sfocata.

Già nei primi film, il regista sviluppa il suo modo di guardare il mondo, non solo a livello tematico, ma anche visivo, costruendo uno stile inconfondibile. Utilizzando la camera fissa e movimenti fluidi, non si preoccupa della perdita del senso della realtà, ma si dedica alla bellezza estetica della composizione visiva. Il regista riesce a trasmettere il senso della meraviglia, che rallenta o interrompe per qualche minuto la decadenza della vita: elementi surreali e teatrali arrivano all’improvviso, come epifanie, sorprendendo sia i personaggi sia il pubblico. Il ritmo è lento, pieno di silenzi, e l’uso della musica è sempre molto preciso: un’alternanza tra il lirico e un dinamismo pop.

Dopo il successo delle prime opere, Sorrentino dirige e scrive diversi film, in cui il tema della solitudine si intreccia con le vicende intime dei personaggi. E sono tutti soli, tutti hanno perso qualcosa e ne perderanno altre, rimanendo ancora più soli. Non c’è soluzione alla loro decadenza: L’amico di famiglia (2006) la storia di Geremia de’ Geremei, un usuraio cinico e spietato;, Il Divo (2008), la vita di un uomo che tutti conosciamo, Giulio Andreotti.

Con This Must Be The Place (2011), il regista inizia a mettere a fuoco un ipotetico modo per sfuggire da questo declino, che aveva già abbozzato nel finale di Le conseguenze dell’amore.

Cheyenne è stato una rockstar. All’età di 50 anni, triste e annoiato, si veste e si trucca come quando saliva sul palcoscenico: ha bisogno di aggrapparsi a quel passato di gloria. Alla morte del padre, decide di partire per scoprire il suo passato. Ed ecco l’inizio di una speranza, un tentativo di rispondere al suo esistenziale dubbio sul senso della vita.

Così, dopo aver trovato una possibile strada per rispondere alla sua grande domanda esistenziale, scrive e dirige La grande Bellezza (2013), il film che lo porterà alla vittoria di un Premio Oscar, un Golden Globe, nove David di Donatello (su diciotto candidature) e tanti altri riconoscimenti. Eppure, alla fine, è sempre la stessa storia: Jep Gambardella, uno scrittore solo, annoiato, non riesce più a scrivere. Una sera, La Santa, una centenaria suora che si nutre solo di radici, gli chiede il motivo del suo blocco.

“Sto cercando la grande bellezza” risponde lui. La Santa, allora, gli chiede se conosce il motivo della sua scelta di mangiare solo radici. Jep non lo sa.

“Perché le radici sono importanti”. Risponde la donna.

Con queste parole, Sorrentino ci dice che l’unico modo per trovare se stessi è proprio quello di accettare le proprie origini. Jep torna a casa e immagina di incontrare il suo primo amore giovanile: la grande bellezza.

Quando pensiamo al passato come qualcosa da nascondere sotto a un tappeto o in cui rimanere incastrati, è proprio lì che l’essere umano si perde e rimane solo. Per questo, il regista indaga su come raggirare il problema: possiamo davvero eliminare il passato? Possiamo allontanarci da esso senza avere conseguenze? Forse questa è l’unica risposta che Sorrentino ci dà: no, non si può.

Forse possiamo salvarci con l’amore proprio perché ci riporta alle nostre emozioni originarie.

“Hai detto che le emozioni sono sopravvalutate, ma è una stronzata. Le emozioni sono tutto quello che abbiamo” dice Mick Boyle a Harvey Keitel in Youth – La Giovinezza (2015), la storia di due anziani amici che si ritrovano in un elegante albergo ai piedi delle Alpi. : Un altro film dove il passato ci serve per comprendere il presente.

Dopo Youth, Sorrentino affronta di nuovo quelle tematiche politiche, che aveva già esplorato con la vita di Andreotti, e dirige Loro (2018), il film su Silvio Berlusconi, la cui distribuzione viene interrotta in Italia. Si dedica poi alla narrazione seriale con The Young Pope (2016 , 2020).

Ma è alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che l’autore torna sul grande schermo con i ricordi e le radici che hanno sempre attraversato il suo cinema, ma in maniera più intima, più personale, come mai aveva fatto prima. Viene, infatti, presentato È stata la mano di Dio (2021). Finalmente il regista riesce a mettere su carta, e sullo schermo, quello che ha cercato di esprimere per tutta la sua carriera: “Non ti disunire” dice Capuano a Fabietto, il protagonista, nella scena più significativa del film. Ed è proprio questo il senso.

L’unico modo per salvarsi è accettare il proprio passato, ricordarsi da dove veniamo, riconoscere le proprie origini. Questo non significa rimanere incastrati nei ricordi, ma avere il coraggio di andare via senza fuggire, consapevoli che il nostro modo di stare al mondo è intrecciato alle nostre radici. Confrontarsi con il proprio passato è necessario per poter andare avanti senza perdersi, senza rimanere soli. Ma questo i personaggi non lo capiscono davvero, ci si avvicinano. L’unico che ci riesce è proprio Sorrentino, Fabietto in È stata la mano di Dio.

La conseguenza è la malinconia. Perché ricordare il passato, anche senza vivere in esso, può portare con sé solo una cosa: una profonda nostalgia.

E infine, proprio qualche mese fa, è uscito nelle sale il suo ultimo film: Parthenope (2024), la storia di una giovane donna capace di sedurre ogni uomo che incontra, come la sirena di cui porta il nome. L’autore ci racconta ancora del suo primo amore: quella stessa figura femminile che ci aveva già presentato in passato. Parthenope è Elisa, quella ragazza che Jep Gambardella ritrova nei suoi ricordi, il primo amore giovanile che, come dice Sandrino a Parthenope poco prima di lasciare Napoli, è servito “a regalarci l’illusione della spensieratezza”.

Sandrino parte, forse per tornare e vivere i suoi sentimenti per Parthenope. Fabietto lascia la sua città. Paolo Sorrentino sceglie di andare via, per poi fare ritorno, più consapevole, così da poter raccontare e vivere pienamente la sua Napoli, il suo vero primo amore.

Per comprendere Sorrentino, bisogna concedersi la possibilità di immergersi non solo nei suoi film, ma in ciò che si prova nel corpo mentre li si guarda. I suoi racconti sono lenti per permetterci di osservare davvero la vita di quei personaggi così soli.

Si rischia di annoiarsi, ma è proprio nella noia che i pensieri più profondi prendono vita: in quel tempo sospeso ci fermiamo, ascoltiamo il mondo e cerchiamo di capirlo davvero, così come fa lui quando appoggia la penna sul foglio o accende la macchina da presa. È una ricerca necessaria, anche se alla fine si potrebbe scoprire che non c’è nulla di interessante.

Se per l’avvocata di L’uomo in più il fascino sta nell’evitare il passato e la noia, per l’autore è l’esatto contrario: il suo cinema esiste proprio per abitarli, perché è lì, nel silenzio e nella malinconia, che si nasconde il vero senso della vita.

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Pubblicato il:

31 Maggio 2025

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