Mufasa – Il re leone di Barry Jenkins
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Lorenz Conrad, celebre etologo e zoologo austriaco, scriverebbe «Il leone: egli soffre di una pigrizia davvero invidiabile» se gli avessero chiesto di recensire Mufasa – Il re leone (2024) il nuovo film d’animazione foto realistico “trascinato” sul grande schermo dalla Disney.
Conrad sarebbe stato molto soddisfatto, in ogni caso, del lavoro fatto dagli animatori di questa pellicola per tutta la famiglia, sullo studio dei movimenti animali e sulla verosimiglianza del loro comportamento, ma forse un po’ meno sulle loro espressioni. Divenuto famoso grazie ai suoi studi, tra i più famosi L’anello di re Salomone (1949), anche a lui dobbiamo l’avvicinamento del mondo animale a quello dell’arte e l’interesse che esso suscita nel pubblico.
Torniamo a noi, dopo il successo-insuccesso di Jon Favreau, Il re leone (2019), premiato al botteghino ma non convincente come remake dell’originale del 1994, la grande casa americana ci riprova prendendo una sceneggiatura vergine, un regista di piccoli capolavori come Barry Jenkins – vedasi Moonlight (2016) e Se la strada potesse parlare (2018) – e un compositore d’eccellenza: Lin-Manuel Miranda. Mufasa (Aaron Pierre), divenuto icona anni Novanta durante il rinascimento disneyano, diventa il protagonista di questo coming of age, raccontato dall’amico e primate sciamano Rafiki (John Kani) alla nipotina felina Kiara (Blue Ivy Carter) per rassicurare la piccola in una notte tempestosa.
Mufasa è un film che intrattiene, che può sorprendere per la tecnica impiegata, un vero è proprio “doppio film” se si pensa alle riprese, come spesso accade nell’animazione, realizzate in un primo momento sul set con gli attori per capire l’interazione e, in un secondo momento, dentro una savana virtuale costruita ad hoc. Ed è in questo mondo virtuale che il nostro film prende vita mentre gli animatori e tecnici, dei ex machina, muovono i fili d’erba e le ombre, le foglie e il pelo, restituendo l’illusione della vita.
Ma la realtà virtuale in cui veniamo immersi ormai da anni dal cinema dei grandi numeri non basta più a farci apprezzare il tempo trascorso nelle sale, il pubblico vuole essere trasportato, anzi, accompagnato, dentro la storia con emozioni, risate e lacrime. Un compito che per la grande casa Disney sembra sempre più arduo. Se da un lato l’innovazione è ormai la chiave di volta per leggere la tecnologia, proponendoci effetti sempre più realistici e sorprendenti, la scrittura ne risente, ormai invecchiata, sicura e saldamente ancorata al passato per paura di cadere. Per dare colore servono quindi movimenti di macchina al limite del credibile: la cinepresa, che si muove in questo universo virtuale perfetto, non ha però un momento di tregua per mostrare tutte le sfumature del mondo creato per il pubblico.
La colonna sonora di Lin-Manuel Miranda è quello che dona davvero colore ad una pellicola altrimenti insipida. Il musical, da sempre cavallo di battaglia della Disney, trova con il compositore già famoso per le canzoni di Oceania (2016) ed Encanto (2021), una complicità e ricercatezza degne di nota. Il musical è infatti un inno all’afrobeat, ci trascina nel mondo animale e non ci fa sentire la mancanza dei grandi classici Hakuna Matata e Il cerchio della vita.
Al contrario, le figure di Timon (Billy Eichner) e Pumbaa (Seth Rogen), come anche quella del leone cattivo Kiros (Mads Mikkelsen), ingiustificatamente di colore bianco (il motivo è di carattere tecnico, con così tanti leoni in scena si potrebbe confondere lo spettatore su chi sia chi, conviene quindi definire in modo chiaro buoni e cattivi, Mufasa con tratti tondeggianti e Scar (Kelvin Harrison Jr.) con tratti più spigolosi, buoni e cattivi di colori diversi), sono personaggi consumati, in decadenza proprio come l’industria disneiana, che cerca dispersamente la superficie in un mare di produzioni indipendenti ben più lungimiranti, sarà forse questo l’ultimo tentativo di cantare un Hakuna Matata… o meglio Hakuna Mufasa.
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