Cinque secondi di Paolo Virzì

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Cinque secondi sono il tempo sufficiente perché la vita prenda una direzione imprevista. In questo film toccante, colmo dello struggimento tipico delle opere di Paolo Virzì, che qui cura regia e co-sceneggiatura, la sensibilità del pubblico è messa alla prova: all’uscita dalla sala, dopo meno di due ore di film, Cinque secondi lascia sui volti degli spettatori una traccia evidente. Il trasporto emotivo sembra carico di disorientamento, la commozione sembra amalgamarsi alla perplessità.
Un avvocato (Valerio Mastandrea) risiede nelle ex scuderie di un palazzo nobiliare abbandonato, mentre sta affrontando un processo giudiziario che lo prosciuga e che lo ossessiona nel ricordo incessante di un episodio funesto avvenuto un anno prima. Contemporaneamente, al di là della staccionata che lo confina nella sua routine pensierosa e desolata, nuova vita sta nascendo. Un gruppo di giovani professionisti ed esperti del settore agricolo ha intenzione di occupare il palazzo nobiliare per rinnovarlo, ricostruendo l’ex vigna tra i rituali tipici di una comune autosufficiente, anarchica e libera dalla rigidità del sistema. Inizialmente, per il protagonista è destabilizzante vedere invasa la propria dimensione isolata e silenziosa; tuttavia, è proprio il confronto con la leader del gruppo, Matilde (Galatéa Bellugi), discendente dell’ormai decaduto conte, a risvegliare in lui qualcosa che stava cominciando a marcire. La colpa di cui è accusato affonda le sue radici in un momento di sgomento, generato dal suo desiderio di cura e inclusività, troppo a lungo minato da un sistema rigido che antepone la medicalizzazione e l’istituzionalizzazione delle persone disabili alla loro felicità. L’urlo della vita che combatte contro gli schemi, la caparbietà dell’autosufficienza, lo conducono a una catarsi: l’errore fa parte dell’umanità, ma è per questo che l’umanità può rivelarsi un errore?
Da un punto di vista sociologico, il film ci illude che una società indipendente sia desiderabile, ma ci mette in guardia di fronte alla necessità di alcune regole. Se in un primo momento della sua vita il protagonista rappresentava la fame di libertà che sfocia in incoscienza, in questa nuova fase egli incarna invece la necessità dell’ordine minimo, quello indispensabile per la sopravvivenza. Nella società ideale, dunque, è la presenza di umanità tanto quanto di strumenti a determinare il vero accesso alla felicità e al benessere. Non un sistema di comunità, ma la comunità come sistema.
Sarà proprio questo cambio di posizione del protagonista a svelare la riflessione sui limiti del sistema e dell’antisistema, immergendoci – attraverso momenti carichi di emozione e fervore – all’interno dell’animo umano: tanto idealista e bisognoso di apertura, quanto fragile e bisognoso di cura. Ancora una volta, Paolo Virzì riesce a portarci dentro a una delle tante cellule che compongono la società, rivelando un’intera questione controversa attraverso la dinamica della sua storia. Siamo fragili, siamo idealisti: siamo umani.
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