Warfare – Tempo di guerra di Ray Mendoza e Alex Garland

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Warfare - Tempo di guerra di Ray Mendoza e Alex Garland

A solo un anno da Civil War, Alex Garland ripropone, con Warfare – Tempo di guerra, la sua idea di guerra e, soprattutto, di war movie, questa volta nascondendosi tra le fila rassicuranti e disponibili dei Navy SEAL statunitensi. È grazie alla loro guida, infatti, che è stata minuziosamente ricostruita l’estenuante e angosciosa operazione di un gruppo di Navy SEAL finiti in un’imboscata durante la guerra in Iraq nel 2006. Nonostante il regista britannico abbia provato più volte a svicolarsi dalla paternità dell’opera, dichiarando di aver semplicemente assistito Ray Mendoza – già consulente militare in Civil War –, il film risulta talmente allineato al precedente da presentarsi tacitamente come secondo capitolo di un ideale dittico bellico. Si potrebbe addirittura sostenere che la presenza di Ray Mendoza in questa nuova veste si costituisca come una sorta di cavallo di troia, un certificato di aderenza alla prospettiva americana, così spesso ribadita da fare dubitare della sua sincerità. Inoltre, considerando come Civil War fosse stato colpevolmente ignorato nella scorsa award season, probabilmente a causa del suo esplicito antiamericanismo, il sospetto che il punto di vista esclusivamente statunitense di Warfare nasconda una visione molto più spietata dell’operato americano si avvalora sempre di più.

L’approccio immersivo e asettico di Garland, e la sua regia nitida e distaccata – le figure intere di corpi tremuli e dilaniati sovrastano i rari e mai patetici primi piani dei combattenti americani – tradiscono il suo intento: svuotare radicalmente il film di qualsiasi componente ludica o drammatica, evitando così il rischio di distogliere lo sguardo spettatoriale dalla scriteriata furia di atrocità che rappresenta la guerra. Warfare, infatti, è quasi completamente privo di una cornice che possa aiutare il pubblico a comprendere la posta in gioco e l’importanza del “sacrificio” dei marines, così come è sprovvisto di un impianto di scrittura drammatica che permetta di tratteggiare dei personaggi tridimensionali, degli uomini oltre che dei soldati. I seals di Garland e Mendoza sono dunque delle vacue e cristalline maschere che non riflettono altro che l’orrore della guerra. Una brutalità che si espande oltre i confini diegetici della pellicola, invadendo il volutamente posticcio finale, in cui vengono mostrati dei momenti dalla realizzazione del film. Quando sul set giunge raggiante il cecchino veterano Elliott Miller, l’epilogo si fa ancor più straniante: da ricostruzione impietosa del conflitto iracheno, il film si trasforma retroattivamente in un tuffo nei ricordi, un amarcord, una rimpatriata tutt’altro che terapeutica che sembra reiterare il becero cameratismo militare mostrato nel prologo. Infine, l’esibizione ossessiva del valore documentale dell’opera, testimoniata anche dall’accoppiamento delle foto dei veri seals (spesso però oscurati) con gli attori che li hanno interpretati – a mo’ di biopic –, ha l’inaspettato effetto di aprire nuovi squarci interpretativi che tendono macabramente al reenactment à la The Act of Killing (Joshua Oppenheimer, 2012).

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Pubblicato il:

29 Agosto 2025

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