Il rapimento di Arabella di Carolina Cavalli

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Ambientato in un’Italia che non esiste, popolata da fast-food americani, cappelle in stile Las Vegas e muri di sicurezza che racchiudono confini immaginari, Il rapimento di Arabella (2025) di Carolina Cavalli indossa le forme della commedia per celare una materia ben più fragile, fatta di rimpianti e solitudini. È un mondo costruito più con immaginari cinematografici che con mappe, sospeso tra il familiare e l’assurdo: un non-luogo che accoglie personaggi disorientati e aspirazioni smarrite, restituendo la sensazione — molto contemporanea — di una vita che sembra sempre quella sbagliata.
Holly (Benedetta Porcaroli) è una giovane donna intrappolata in un passato che non riesce a lasciare andare, convinta che la propria infelicità sia nata il giorno in cui, da bambina, ha finto di zoppicare per evitare le lezioni di danza. Sta completando una laurea in fisica, ma neppure l’ordine degli studi riesce a offrirle una direzione: quel gesto infantile continua a funzionare come una crepa che attraversa ogni cosa. Quando, nel parcheggio di un fast-food, incontra Arabella (Lucrezia Guglielmino) — una bambina che dissimula lo stesso movimento — Holly si persuade che quella sia la sua sé perduta, riapparsa attraverso «buchi nel tempo e nello spazio». Arabella, desiderosa di scappare di casa, asseconda quella fantasia e la segue.
Cavalli costruisce un’ambientazione finta e distorta: distese che evocano il Texas, architetture da road movie, destinazioni dai nomi alterati come Perla Cruez, la cui goffaggine linguistica risuona con quella delle identità che Holly si inventa — come quando si registra al motel come Britney De Pooh. Attorno a loro appaiono figure quasi sorrentiniane, presenze eccentriche che emergono e svaniscono senza spiegazione, come in un teatro dell’assurdo in cui il mondo procede più per immagini che per logica.
La fotografia accompagna con precisione emotiva il loro percorso: all’inizio è fredda, opaca, come se nessuna luce riuscisse davvero a raggiungere Holly. Durante il viaggio si scalda gradualmente, concedendo una breve parentesi di tregua. In uno di quei momenti sospesi Holly dice ad Arabella: «Basta così poco e la vita giusta non la puoi vivere più», una confessione che rivela la crepa sottilissima su cui poggia il suo desiderio di riscatto. Quando però l’incanto si incrina, l’immagine torna a irrigidirsi, recuperando i toni freddi dell’inizio: un modo per ricordare che nessun artificio può riscrivere ciò che è stato e che «nonostante tutto, non si può tornare indietro».
Al centro del film c’è la loro vulnerabilità. Holly telefona alla madre morta come se potesse ancora offrirle una direzione, teme di non essere accettata e desidera, più di ogni altra cosa, piacere alla sé bambina, unico sguardo da cui spera di essere assolta. Arabella, bambina troppo adulta, comprende con lucidità che senza di lei, la ragazza non ha nessuno. A completare il quadro c’è il padre della bambina, interpretato da un sorprendente Chris Pine che recita interamente in italiano: adulto fragile e smarrito, cerca approvazione pagando una prostituta perché ascolti i suoi testi. La sua inadeguatezza illumina per contrasto la precoce maturità della figlia, in un mondo dove i ruoli si scambiano senza che nessuno se ne accorga.
Il rapimento di Arabella appare davvero nuovo nel panorama italiano: attinge al cinema indie americano, lambisce la comicità nonsense di Wes Anderson e la crudeltà ironica dei Coen, ma senza imitarli. Nel contesto del nostro cinema, l’originalità del film è un gesto netto: Cavalli costruisce un immaginario eccentrico e personalissimo per raccontare una condizione profondamente condivisa, quella di sentirsi sempre un passo indietro rispetto alla vita che si sarebbe voluto vivere. E in questo incontro tra audacia formale e fragilità umana, il film trova un equilibrio autonomo, illuminando con delicatezza quello spaesamento che spesso non sappiamo nominare.
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