Die My Love di Lynne Ramsay

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Die My Love di Lynne Ramsay

Tra le trame di vetri in frantumi, Die My Love (2025) lascia affiorare un lutto che non è mai soltanto quello dichiarato. È un dolore che cambia forma, si nasconde, si confonde con la maternità, con il desiderio, con la paura di non riconoscersi più. Adattamento dell’omonimo romanzo di Ariana Harwicz, Lynne Ramsay realizza un’opera fatta di teatralità, silenzi trattenuti, urla che irrompono e un continuo oscillare tra oniricità e concretezza.

A dare corpo a questa crepa è Grace (Jennifer Lawrence), incinta del suo primo figlio, che con il marito Jackson (Robert Pattinson) si trasferisce in una casa isolata nel Montana, appartenuta allo zio di lui, morto suicida. I due si desiderano in maniera animale, a gattoni come felini in caccia; eppure, sin dai primi passi in quella casa, qualcosa in Grace si incrina. Si piega in due, si sfiora i piedi, rivelando un pensiero sospeso, non detto, che si manifesta solo attraverso il corpo. Dopo la nascita del figlio, quella piccola scheggia diventa frattura. La casa assume i contorni di un Overlook Hotel rurale, un labirinto di corridoi vuoti che Grace attraversa da sola, mentre Jackson è quasi sempre via.

In questo spazio sospeso, il lutto sembra depositarsi come una polvere invisibile. È il suicidio dello zio che abita ancora le pareti, il dolore recente della suocera rimasta vedova, l’orfanezza di Grace e soprattutto la perdita di sé che affiora dopo la maternità. Anche il figlio è una presenza che c’è e non c’è: un corpo minuscolo a cui non ha dato ancora un nome, quasi mai messo a fuoco, che amplifica la sensazione di identità sospesa. Tutti questi dolori si sovrappongono tra malintesi e metafore, circolando liberamente nel labirinto della casa.

Nell’intreccio di perdite, Grace procede per oscillazioni: slanci vitali seguiti da crolli improvvisi, come se il lutto regolasse l’andamento stesso del suo corpo in una coreografia emotiva potentissima. Con lo stesso ritmo, Ramsay costruisce uno spartito fatto di brani a volumi altissimi, ritornelli canticchiati, pianti e abbai alternati al silenzio e al ronzio degli insetti. È un paesaggio sonoro instabile, fatto di intrusioni e silenzi trattenuti, che amplifica gli stessi sbalzi che attraversano Grace.

Accanto al tumulto sonoro, Ramsay oppone la concretezza ruvida del corpo di Grace a un’immagine costantemente sospesa. I dettagli più fisici — i piedi sporchi, l’urina, il sangue, la birra bevuta senza misura — ancorano il film a una materia quotidiana e brutale, ricordando che il suo smarrimento non vive solo nella mente, ma attraversa tutto il corpo. Intorno, però, la fotografia apre uno spazio onirico: notti che rimangono grigie, contorni lattiginosi dati dalla pellicola, campi lunghissimi che trasformano il Montana in un paesaggio mentale. In questo scarto anche lo spettatore perde l’orientamento: il cavallo libero che poi vediamo ferito dalla macchina – forse una sua personificazione -, il vicino che appare e scompare e i gesti ripetuti, tutto si ritrova a fluttuare in un territorio dove la distinzione tra realtà e percezione si dissolve.

La relazione di Grace con la casa si intensifica fino a diventare fisica, quasi animalesca: le unghiate sulla tappezzeria, la testa che sbatte contro lo specchio, il gettarsi fuori dalla portafinestra. Ramsay scolpisce immagini che restano indelebili, grazie alla presenza magnetica e ferina di Lawrence. In parallelo, il legame con Jackson si sfalda: lui è lontano anche quando è presente, e la scoperta ogni volta di una nuova marca di preservativi nella sua macchina aggiunge un sottile strato di sospetto e umiliazione al senso di non essere più desiderata.

Die My Love diventa così un horror domestico senza mostri, un viaggio dentro un lutto che muta forma e precede ogni evento, ricadendo su ogni immagine. Non offre appigli né risposte: ci abbandona nella sospensione di Grace, lasciandoci addosso un turbamento che non svanisce e che è la sua forza più profonda.

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Pubblicato il:

1 Dicembre 2025

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