Sound of falling di Mascha Schilinski

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Come una trapunta di famiglia a cui vengono intessuti nuovi quadretti nei decenni, Sound of falling (2025) è un ambizioso progetto venato di malinconia che scava nei più intimi traumi intergenerazionali di un gruppo di donne confinate nella Germania rurale. Dopo essersi aggiudicata il premio della giuria al 78° Festival di Cannes, la sceneggiatrice e regista tedesca Mascha Schilinski porta in anteprima italiana la sua opera impressionistica, presentandola fuori concorso alla 43ª edizione del Torino Film Festival.
Ambientato interamente in una suggestiva e ampia fattoria, il film intreccia le vicende di una famiglia allargata che ha vissuto nella tenuta, scandendone la vita in quattro differenti piani temporali: Prima Guerra Mondiale, Seconda Guerra Mondiale, anni ’80 e contemporaneità. Tale struttura configura Sound of falling come una memoria soggettiva, che prende forma interamente grazie a sensazioni e impressioni piuttosto che mediante una solida trama.
Più che un’opera organica, è un’esperienza che vive di dettagli invece che nell’insieme delle sue due ore e mezza, quasi fosse solo lo scheletro di un film, un’idea senza spessore. Shilinski organizza un susseguirsi d’immagini e spunti estetici volti a suscitare inquietudine e intensità emotiva, eppure, lascia che sia lo spettatore a dover attribuire peso e significato a ogni gesto, rischiando di risolvere il film in un vuoto di concretezza.
Sound of falling suggerisce l’esistenza di una continuità ciclica di destini, sensazioni e umori all’interno della famiglia protagonista. E difatti, nei personaggi – principalmente bambine, ragazze e alcune donne – assistiamo a una reiterazione di temi dolorosi: violenza, menomazione, incesto, stupro, sterilizzazione forzata, morte e una frequente nudità e sesso usati a scopo di puro naturalismo. Il film mantiene un senso voyeuristico intriso di un amaro piacere per la decadenza, che sembra romanticizzare ogni possibile sofferenza femminile attraverso l’autocommiserazione.
Troviamo una ragazzina che vaneggia di aver perso una gamba come lo zio; una bambina ossessionata dalla fantasia morbosa della propria morte; un’adolescente vittima di abusi da parte dello zio, e che continua a denudarsi di fronte a un’interessato cugino; una donna che con istinto masochista si lascia mordere da una fallica anguilla morta; e svariate giovani che sembrano intenzionate a suicidarsi nel fiume, à la Ofelia.
Questa tendenza a enfatizzare e immortalare in arte ogni dolore o cupo pensiero serve a giustificare il proprio senso di protagonismo e importanza. In tal senso, il cast corale di Sound of falling si presenta come un gruppo di silenti poeti torturati, pronti a scrivere ogni profondo turbamento in un diario per poi cospargerlo di fiori secchi. In questa direzione, non stupisce che in alcune scene la musica divenga padrona, trasformando le immagini dissonanti in un nostalgico video musicale.
Più che un lungometraggio dalle solide basi e intenti, quest’opera non lineare e dal montaggio erratico ipnotizza il pubblico come fosse una tetra videoarte ispirata alle “moodboard da Tumbrl”. Seguiamo personaggi – forse imparentati o no – privi di caratterizzazione o storia, di cui dobbiamo comunque evincere le inquietudini, non dagli scarsi dialoghi, ma unicamente dai loro potenti sguardi. Ci ritroviamo a osservare queste donne come se sfogliassimo vecchie fotografie senza un preciso contesto, o come se scorressimo sul cellulare varie scenette retrò accompagnate infatti da monologhi inani e suoni insistenti.
Sound of falling, tuttavia, utilizza il suono stesso con grande efficacia, accostando l’intima sensorialità delle immagini con lunghi silenzi e rumori dettagliati: il ronzio delle mosche, il frinire delle cicale, i respiri, il fruscio della paglia, lo scorrere dell’acqua e i tonfi prodotti dei piedi. Girato nel classico e artistico Academy ratio (formato 1,37:1), il film è principalmente illuminato con lampade ad olio, candele e luce naturale. Eppure, anche in condizioni di proiezione ottimali, molte sequenze appaiono fin troppo buie e poco contrastate, facendone scomparire gli importanti dettagli che compongono l’estetica dell’opera. La macchina da presa si muove da una scenetta ad un’altra, fluida ma imprecisa, spesso opacizzando, sfocando o desaturando le sue composizioni in spenti grigi, blu e beige.
A differenza del calmo indugiare di alcuni sapienti registi quali Terrence Malick, Céline Sciamma e Naomi Kawase, la malinconica poetica di Mascha Schilinski appare meno ragionata e persa in un formalismo sterile; l’atto di spiare, osservare e provare ogni sensazione diviene fine a sé stesso. Se il titolo internazionale, Sound of falling (Il suono della caduta), richiama l’annegamento e i vari salti nel vuoto – sia onirici che fisici – presenti nella narrazione, il titolo originale presenta un diverso riferimento. Durante la presentazione del film, la regista ha spiegato come il titolo tedesco, In die Sonne schauen (Fissando il sole), voglia evocare la vaga sensazione di offuscamento visivo che si prova quando si rimane abbagliati e istintivamente si chiudono gli occhi. Risulta inevitabile concordare con Schilinski: questo film non può che lasciare lo spettatore confuso, lievemente infastidito e, in definitiva, con non molto da vedere.
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