Profondo rosso di Dario Argento

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Urla, sussurri, decapitazioni. Una bambola, delle ombre. Il nottambulismo di Edward Hopper nella vacuità metafisica di Giorgio de Chirico. È una suggestione continua, Profondo rosso (1975): nelle piazze vuote, per le strade, tra le finestre socchiuse. Il cinema come luogo della paura, dell’inquietudine sottile, sempre presente e mai visibile. Una costante predisposizione ipnotica. Philippe Daverio, storico dell’arte, diceva: «Il cinema è figlio del buio e della luce che vi genera delle ombre. Il buio è – dalla lontana epoca della nostra coscienza paleolitica – il luogo della paura, ma è anche il luogo del fuoco e il luogo del sogno. […] Forse già l’uomo delle caverne si divertiva con i fantasmi».  

Quella di Profondo rosso è un’angoscia primordiale, bambinesca: dalla paura del buio al turbamento di una melodia sconosciuta. La pellicola si apre proprio con una cantilena, una ninna nanna sospetta, e si conclude, nel finale, con l’immagine di un coltello tinto nel sangue. Ad impugnarlo sarà, appunto, un bambino.

Dario Argento segna con questo film un chiaro spartiacque tra un cinema strettamente thriller, il cosiddetto “giallo all’italiana”, e un cinema più viscerale, surreale, meno razionale. Un mutamento che porterà alla creazione di opere come Suspiria (1977), Inferno (1980) e Phenomena (1985), dove la componente paranormale penetra nel profondo e l’altrove prende il sopravvento sul quotidiano. La caparbietà di Argento è stata anzitutto quella di voler dimostrare – come già si intuiva tra le pagine de ‘L’Araldo dello Spettacolo’, giornale per cui il regista scriveva – come il cinema di genere non escludesse il cinema d’autore.  

Dalla scelta dell’attore protagonista David Hemmings, presente anche in Blow-up (1966), quint’essenza del cinema d’autore italiano – e Profondo rosso ricorderà, nella sua natura investigativa, la pellicola di Antonioni -, fino a un approccio all’immagine cinematografica che eleva l’horror e l’orrore a viaggio psicologico. Da questa prospettiva, Federico Fellini irrompe prepotentemente tra le figure di riferimento, e la concretezza del mondo lascia spazio a un realismo magico che nei film di Argento si traduce in angoscia e paura dell’invisibile (la sceneggiatura venne scritta, non casualmente, in collaborazione con Bernardino Zapponi, che aveva sceneggiato alcuni tra i film di Federico Fellini). L’uso sottile del sussurro, il movimento di oggetti inanimati, l’utilizzo della macchina da presa come sguardo stregato e lo studio delle architetture come teatro psicologico di una dimensione altra. Il film adotta un punto di vista straripante, fatto di decapitazioni accidentali, sangue denso come la vernice, spazi liminali dai quali i protagonisti sembrano non poter uscire; una mescolanza di intuizioni che portano il film su un piano allucinato, dove il “luogo del sogno” di cui parlava Daverio diventa così il luogo dell’incubo, allontanandosi dalla quotidianità del fatto di cronaca e trasformandosi in un labirinto della coscienza che oscilla tra realtà e fantasia, come intrappolati in uno stato di veglia perenne.  

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Pubblicato il:

13 Marzo 2025

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