Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof

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Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof

Mohammad Rasouluf, a distanza di quattro anni dal suo ultimo lavoro e dopo l’ennesima persecuzione da parte delle autorità iraniane, continua il suo commento politico alla condizione sociale del suo paese con una pellicola sul controllo degli individui e la corruzione paranoica del potere, nonché sugli effetti distruttivi dell’ideologia sulle relazioni e gli affetti più intimi. Protagonisti di questa accusa sono Iman (Misagh Zare), neogiudice istruttore obbligato a contrastare le continue proteste a Teheran con condanne ingiustamente severe, sua moglie Najmeh (Soheila Golestani), fedele quanto repressa sostenitrice del marito e della tradizione, e le due figlie Rezvan e Sana (Mahsa Rostami e Setareh Maleki), più critiche verso il regime teocratico: un nucleo affettivo, all’inizio saldo e gioioso, improvvisamente scardinato dalla tensione per la ricerca inquieta della pistola d’ufficio del padre andata persa, indizio di un furto e di una crescente protesta interna alla famiglia.

Nel panorama cinematografico iraniano, la sacralità è spesso il sigillo che rende lecita qualsiasi azione, il valore in nome del quale possono essere compiuti atti violenti e distruttivi se giustificati da una repressiva interpretazione della volontà di Allah. Così in Holy Spider (Ali Abbasi, 2022) la morte seriale di prostitute appariva corretta dagli abitanti di Mashhad perché letta come farmaco necessario per curare i costumi femminili oltraggiosi agli occhi del Dio del Corano. Nel racconto di Rasoulof invece, sacro non è più il singolo killer che attira le prede nella sua ragnatela, ma la pianta del fico, volta a succhiare la linfa vitale di altri arbusti fino alla sua necessaria prevalsa mortifera. Qui il simbolo naturale chiama in causa un intero sistema ideologico ossessionato dal suo istinto di preservazione, dedito a contagiare i suoi numerosi ospiti per annullarne l’integrità critica ed emotiva.

Tutto ciò si presenta nell’evoluzione della famiglia del film: Iman, dopo la sparizione della pistola, viene insediato dal seme della paranoia, costretto a considerare qualsiasi suo familiare come un potenziale sospettato da interrogare e, eventualmente, punire; Najmeh, di fronte al cambio d’umore del marito, comincia a mettere in discussione il suo ruolo di moglie, madre e donna, divisa tra l’amore incrollabile per le figlie e l’obbligo di obbedienza e sudditanza verso la tradizione; Sana e Rezvan infine, a seguito del rapimento di un’amica comune, combattono l’autorità del padre e del regime da lui sostenuto, costrette dalla morsa asfissiante delle indagini e delle minacciose accuse. Il parassita ideologico penetra quindi negli animi dei personaggi, scardinando gli equilibri della vitalità di un microcosmo in vista della sopravvivenza del macrocosmo autoritario opprimente.

Sul lato tecnico, nonostante l’intreccio possa talvolta risultare non troppo ispirato e memore di espedienti narrativi classici, come la pistola-macguffin da Cane randagio (Akira Kurosawa, 1949), il mosaico di immagini risulta impeccabilmente ben studiato per sostenere le atmosfere e tematiche della pellicola. Ispirato forse dalle esperienze di clandestinità vissute in prima persona, il regista de Il male non esiste (2022) sceglie di costruire un film organizzato di soli interni, con inquadrature insistite sui volti dei protagonisti oppure messe in scena più allargate con i personaggi colti in gabbie minute (questo il senso dei video reali limitati al formato ristretto del post dei social). I tagli netti della fotografia, i colori acri e le ambientazioni contribuiscono a veicolare la costante sensazione di soffocamento: ogni viaggio in macchina, ogni cena esperienza quotidiana, ogni conversazione prendono vita in una matriosca di prigionie che da luoghi sicuri costringe i personaggi a spazi sempre più angusti e minimi, uniti al progressivo passaggio dalle pareti accomodanti degli interni domestici alla desolazione arida del deserto persiano. In sintesi, Il seme del fico sacro porta avanti l’attivismo politico di un regista dedito alla sua missione sociale attraverso un impegno artistico coerente e creativo, privo di esagerato astrattismo e innervato di cruda concretezza. Perfino i simbolismi, tra anelli oscuri, pallottole di piombo e rovine desertiche, esprimono direttamente la denuncia di un potere violento e dei suoi effetti devastanti le vite degli individui, accompagnate qua e là da un debole grido di speranza e ribellione che, seppur ferito, non cade in silenzio.

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Pubblicato il:

25 Febbraio 2025

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