I dannati di Roberto Minervini

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I Dannati di Roberto Minervini

L’ultimo regista italiano ad avere ossessivamente raccontato il continente nord-americano è stato Sergio Leone. Considerando il mito della fondazione statunitense come la quintessenza dell’anima spettacolare del cinema, i suoi film hanno reso ancor più leggendaria la nascita di questo paese così contraddittorio e insieme tanto affascinante. A diversi decenni di distanza, un altro regista italiano è tornato a rivolgere insistentemente il suo sguardo verso gli Stati Uniti. Al contrario dell’illustre precedente, Roberto Minervini ha sempre indirizzato la sua attenzione sul lato oscuro del mito, la parte marginale che subisce sulla propria pelle le conseguenze dei paradossi del paese americano. I dannati, prima opera non documentaristica del regista marchigiano, narra infatti un insignificante episodio della guerra di secessione americana che ruota intorno a una compagnia di volontari dell’esercito statunitense impegnata a perlustrare e difendere i propri confini.

Perfettamente in linea con i protagonisti delle sue opere precedenti, abbandonati a loro stessi all’interno di ghetti, slum o zone rurali fuori dal tempo, i membri di questa compagnia ragionano pensierosi sul senso della guerra civile che stanno combattendo e sull’irrilevante apporto che offrono alla loro causa, in evidente contrasto con le aspettative che li hanno spinti ad arruolarsi. Correndo il rischio di risultare didascalico, Minervini cosparge il film di dialoghi e parole che non fanno altro che ribadire ciò che le immagini mostrano chiaramente. L’emblematica scena iniziale, ad esempio, che ritrae in maniera ostinata e brutale un branco di lupi mentre banchetta voracemente sulla carcassa della preda appena conquistata, risulta di gran lunga più incisiva rispetto alle parole lievemente retoriche «the killing and the dying» pronunciate dal sergente (Noah Carlson) una volta arrivato alla conclusione che la guerra, nella sua essenza, si riduce a queste uniche due azioni.
L’antispettacolarità del soggetto si adatta mirabilmente allo stile di Minervini, permettendogli di esplorare le potenzialità del cinema di finzione senza dover rinunciare alle caratteristiche della forma documentaristica a lui essenziali. Risulta infatti quasi impercettibile la differenza tra la manipolazione artistica dei precedenti “documentari”, che incoraggiava i protagonisti a «scatenare una performance dei personaggi e non dell’io», e la vicinanza ossessiva della macchina da presa in quest’ultima opera, che cerca pedissequamente di cogliere ogni barlume di sincerità nei personaggi ora completamente finzionali. Tuttavia, l’ambizione verso il realismo finisce per impoverire e contrarre il potenziale ventaglio emotivo del film. Riaffermate fin troppo insistentemente, le sincere parole antimilitariste si trasformano in sproloqui artificiosi, e l’ambiente minimale e surreale in un palcoscenico teatrale.

di Enrico Nicolosi

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Pubblicato il:

19 Giugno 2024

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