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Strade perdute

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Germania, Regno Unito, Italia, Turchia, Giappone, Francia, Stati Uniti, Spagna. Questi i Paesi d’origine dei registi dietro i dieci film che più di tutti hanno segnato l’ultimo anno cinematografico. Una testimonianza della crescente globalizzazione dell’industria? Forse. Un riflesso della democratizzazione dell’arte cinematografica? Possibile. Risulta tuttavia essenziale andare oltre la superficie di questa apparente diversificazione geografica. Pur essendo solo uno il regista statunitense presente nella lista (Sean Baker), più della metà dei film selezionati hanno come paese di produzione proprio gli Stati Uniti. Ancora più significativo, due registi (il veterano Almodóvar e l’emergente Fargeat) hanno lavorato per la prima volta con cast e risorse di matrice hollywoodiana. Questi dati sottolineano come Hollywood continui a fungere da polo centrale per l’industria cinematografica mondiale: non più un luogo esclusivo, ma un crocevia culturale, un punto riferimento imprescindibile, nonostante l’innegabile crescente distanza che registi di diversa provenienza riescono a mantenere, dando vita a opere che trovano un difficile e affascinante equilibrio tra universalità e radici culturali, costruendo un panorama artistico sempre più fluido e interconnesso.

Ecco a voi la lista, in ordine cronologico di uscita, dei migliori film dell’anno appena passato secondo la nostra redazione.

Perfect Days di Wim Wenders
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Perfect Days di Wim Wenders

Un lavoro vale l’altro. No, non una sterile polemica che chi non ha ambizioni lavorative (legittimo, sia ben chiaro) rigurgita in faccia a chi, invece, le ambizioni le ha. È un’affermazione egualitaria, democratica, dignitosa, che sancisce come il lavoro sia lo stesso per tutti. Eppure, si modifica a seconda di come lo si affronta. E Hirayama (Kōji Yakusho) lo vive al meglio delle sue possibilità: fischietta mentre pulisce i gabinetti, sorride a uno studente sgarbato, è compassionevole e severo con il suo collega più giovane che non ha il suo stesso trasporto emotivo. Accanto al lavoro, un fluire di docili sequenze quotidiane che catturano con rara grazia stilistica le passioni del protagonista. «Ci sono tanti mondi, dentro lo stesso mondo», dice Hirayama. E Wenders desidera che nelle pieghe del suo cinema, insieme lucido e visionario, gli spettatori si smarriscano insieme a lui.

La zona di interesse di Jonathan Glazer
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La zona di interesse di Jonathan Glazer

Fuori campo, negativo e controcampo. Solo grazie alla consapevolezza di questi spazi cinematografici siamo in grado di percepire sia l’orrore che circonda la famiglia Höß, all’apice dell’ambiente tecnocratico nazista e a capo del campo di concentramento di Auschwitz, sia ciò che Jonathan Glazer intende esibire con la sua ultima fatica: un rigore morale integro per la Storia e per le immagini che intendono rappresentarla. Costruito attraverso il contrasto tra la rigidità geometrica delle riprese casalinghe e gli squarci sulla realtà crudele di Auschwitz, il film amplia il proprio raggio d’azione fino al tempo odierno, fino alla nostra, in quanto spettatori, zona d’interesse. E se non siamo in grado di carpirne a pieno la necessità, forse sarebbe più coerente agire come l’SS Rudolf (Christian Friedel): voltare le spalle a un futuro rivelato e proseguire il nostro cammino verso il buio più tenebroso.

Civil War di Alex Garland
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Civil War di Alex Garland

In un futuro prossimo, gli Stati Uniti sono dilaniati da una logorante guerra civile, frutto dell’estrema polarizzazione tra fazioni opposte. Con un film intriso di cupo pessimismo, Alex Garland non si limita a denunciare gli atti criminali dei protagonisti del conflitto, ma, attraverso il viaggio di quattro reporter intenti a raggiungere la capitale per intervistare il Presidente prima della sua esecuzione, sceglie di concentrarsi sulla cruda violenza del conflitto, mostrandone la chiara confusione, l’ingenua brutalità di chiunque vi partecipi, puntando il dito anche, e soprattutto, contro coloro che, professandosi neutrali, alimentano la tragedia con la loro indifferenza, trasformandosi in complici silenziosi e perdendo progressivamente ogni traccia di umanità.

Challengers di Luca Guadagnino
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Challengers di Luca Guadagnino

Tashi (Zendaya) è costretta ad abbandonare il campo, ma resta nel mondo del tennis come allenatrice di suo marito, Art (Mike Faist). Decide di iscriverlo al Challenger Tour, dove si scontrerà con il suo ex fidanzato Patrick (Josh O’Connor). Challengers esplora le dinamiche delle relazioni asimmetriche (e del tennis) in un rettangolo di gioco ben definito: Art e Patrick condividono un desiderio comune, ma unidirezionale, rivolto verso la stessa persona, Tashi. Quest’ultima trova il proprio piacere nel voyeurismo, osservando due corpi tesi, mossi dallo stesso ardore, che si sfidano. In fin dei conti, è proprio questo il tennis.

Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan
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Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan

Il maestro Samet (Deniz Celiloğlu) si trova coinvolto in un triangolo amoroso con Nuray (Merve Dizdar) e Kenan (Musab Ekci), mentre cresce il sospetto che abbia riservato troppe attenzioni alla sua allieva Sevim (Ece Bağcı). Nella sua ultima opera, Nuri Bilge Ceylan dipinge un affresco dell’imperscrutabilità dell’animo umano, creando un circuito aperto, un gioco di specchi e rimandi in cui le relazioni personali emergono come costrutti intrinsecamente egoistici, necessari per la nostra stessa definizione.

L'innocenza di Hirokazu Kore'eda
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L’innocenza di Hirokazu Kore’eda

Un maestro che frequenta bar loschi. Una madre eccessivamente protettiva. Un bambino emarginato. Sono questi i punti di vista attorno ai quali Kore’eda costruisce un mosaico caotico di sentimenti ed evoluzioni morali, una struttura narrativa frammentata e rapsodica, dalla progressione tanto definita quanto disorientante. Nella ricerca della verità e nella reiterazione delle prospettive, il regista trova la sorgente di un turbinio emotivo che coinvolge in egual misura protagonisti e spettatori.

Vermiglio di Maura Delpero
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Vermiglio di Maura Delpero

Un piccolo paesino ai margini della società e una famiglia confinata tra le montagne del Trentino durante l’ultimo anno della seconda guerra mondiale. Questo è il contorno di Vermiglio. Internamente? Una lettera al padre. Un’indagine del proprio passato. Ma anche un racconto epico. Un «paesaggio dell’anima» chiosa la stessa regista, allo stesso tempo attratta dall’artificio della tecnica e interessata alla spontaneità della vita.

The Substance di Coralie Fargeat
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The Substance di Coralie Fargeat

Quando il mondo ti spinge a credere che sia meglio avere una versione di sé più giovane, più bella, più perfetta, e ti offre persino la ricetta per realizzare questa trasformazione, chiedendoti in cambio solo un po’ del tuo tempo, cosa fai, non ne approfitti? Tra un Cronenberg rivisitato, un Tetsuo più carnale che meccanico e il ritorno in grande stile di Demi Moore, Coralie Fargeat svela un universo in cui la scelta di non invecchiare appare inizialmente come un atto di libertà. Eppure, sotto la superficie, potrebbe nascondersi qualcosa di più profondo, ancora una volta condizionato dalle aspettative di una società che impone la bellezza come misura di valore.

Anora di Sean Baker
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Anora di Sean Baker

«I’ll be back on tuesday» dice Ani (Mikey Madison) alla sorella, mentre si allontana da casa, convinta di trascorrere solo una settimana con Vanja (Mark Ėjdel’štejn), il figlio ventunenne di un ricco oligarca russo, che finirà per sposare casualmente a Las Vegas. Ani conosce Vanja nel locale in cui lavora, l’Headquarters, dove si presta a soddisfare i bisogni voyeuristici di uomini (im)potenti lasciandosi guardare. Allo stesso modo Sean Baker, in Anora (Palma d’oro alla 77a edizione del Festival di Cannes), segue Ani con attenzione, senza mai staccarsi da lei, costruendo il terreno di una narrazione sin da subito spoglia di intrecci, che esplode in un crescendo comedy tutto à la New Hollywood. Da Las Vegas a Coney Island, poi nuovamente Las Vegas, tra le luci al neon e i fuochi d’artificio, Anora alla fine torna a casa. Sean Baker regala allo spettatore un’altra (bellissima) storia ai margini, non tanto della realtà quanto del marasma di storie di donne del cinema contemporaneo, mostrando che il peccato non sta nello sguardo, ma in come si viene guardati («You’ve got rape eyes»).

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La stanza accanto di Pedro Almodovar

Ingrid (Julianne Moore) e Martha (Tilda Swinton), due vecchie amiche separate da occasioni perdute, circostanze sfavorevoli e svolte imprevedibili, si ritrovano in una stanza dove una di loro è costretta a prendere una decisione sulla propria fine. Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Pedro Almodóvar, con un rigore estetico tanto emozionante quanto emozionato, una regia solida e geometrica, essenziale nella sua linearità ma densamente stratificata, non solo torna a esplorare una delle tematiche cardine della sua poetica – il rapporto con la morte -, ma dipinge una riflessione intima e implacabile sul presente, ribadendo l’urgenza di un’arte che continui a interrogare e a interrogarsi.

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Pubblicato il:

14 Gennaio 2025

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