Una viaggiatrice a Seoul di Hong Sangsoo

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Una viaggiatrice a Seoul (Yeohaengjaui Pilyo, 2024), trentanovesimo film di Hong Sangsoo in quasi trent’anni di carriera, può essere racchiuso, come tutte le opere del regista sudcoreano, dalla insistente domanda che Iris (Isabelle Huppert) pone ai suoi alunni: «Cosa hai provato?». Come i suoi quesiti, anche le risposte saranno identiche. Del resto, la reiterazione è la cifra stilistica di Hong e i suoi film si pongono ormai esplicitamente come delle “variazioni su tema”. In particolare, nell’ultima prolifica fase della sua carriera, il maestro sudcoreano ha maturato una formula produttiva e di (non) scrittura ormai imprescindibile: il racconto, sempre più autobiografico e sincero, ha ormai assunto una struttura tripartita che si distacca dal binarismo delle sue opere di maggior successo (vedasi The Day He Arrives [2011], Right Now, Wrong Then [2015] e On the Beach at Night Alone [2017]); il lavoro con i suoi attori si fa sempre più coinciso, e il tutto confluisce in una produzione estremamente veloce e flessibile.
Ciò gli permette di raggiungere quell’astrazione, quasi contraddittoriamente radicata nella concreta realtà di tutti i giorni, che invidiava all’adorato Éric Rohmer. Il cineasta francese è però solo l’ultimo tassello di un percorso figurativo che trova la sua origine nel pennello di Paul Cézanne. Hong stesso affermerà più volte come la visione de Il Piatto di Mele (1877), in mostra a Chicago, abbia rappresentato una delle esperienze più sconvolgenti della sua vita. L’ispirazione del pittore post-impressionista è facile da rintracciare e risiede, ovviamente, nella ripetizione. Essa infatti è un fattore chiave nelle pratiche di entrambi gli artisti: Cézanne si è avvicinato all’ordinario, come pezzi di frutta e decorazioni da cucina, per cercare qualcosa di più in essi, mentre Hong torna ossessivamente sui medesimi soggetti, personaggi ed eventi fino a trasfigurarli. Proprio come Cézanne, la semplicità nello stile di Hong invita lo spettatore a trovare sempre qualcosa di sé riflesso nell’arte. Un’arte del banale che rivela di più quanto più si guarda.
Chiedersi allora cosa racconta Una viaggiatrice a Seoul diventa una domanda fuorviante. Il canovaccio è riassumibile in poche righe: Iris, un’amatoriale insegnante di francese che si trova misteriosamente in Corea del Sud, cerca di trasmettere la conoscenza della sua lingua utilizzando un metodo alquanto originale che prevede esclusivamente la ripetizione maniacale di frasi pensate dagli alunni stessi, non tratte dunque dai più canonici manuali scolastici, ma originate dalla domanda «Cosa hai provato?». È però forse ancora più futile chiedersi cosa il film non racconti. La madre di Inhuk (Ha Seong-guk), scoprendo che il figlio si è infatuato di una signora francese di mezz’età (Iris appunto) e che la sta ospitando nel suo appartamento, gli intima di informarsi sul passato di questa misteriosa straniera. A ben vedere, però, lo spettatore non conosce la vita precedente di alcun personaggio. Diventa allora evidente l’irrilevanza di quest’elemento.
Il cinema autosufficiente di Hong ci costringe quindi ad accontentarci del poco che viene mostrato, trasformandoci di conseguenza in spettatori autonomi. Tutto ciò che vi è nel mondo – e non abbiamo bisogno d’altro – è ciò che vediamo e sentiamo. Una via minimalistica ed eremitica che porta l’essere umano ad annullarsi nella natura circostante. Se in altre opere l’elemento prediletto era l’acqua, questa volta è la vegetazione – richiamata dall’onnipresente verde indossato dalla protagonista. Accade così che al termine del secondo segmento Iris scompaia dalla vista di una sua alunna immergendosi nella flora del parco, e che Inhuk non riesca a scorgerla, invisibile più che mimetizzata, seduta in una panchina circondata di piante. L’effimerità di Iris, di Una viaggiatrice a Seoul e del cinema di Hong Sangsoo è quindi solo il riflesso dell’abbondanza che il mondo ci regala. Tocca a noi però riconoscerla nella ridondante reiterazione di elementi che compone le nostre vite.
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