La trama fenicia di Wes Anderson

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Come in uno degli svariati duelli messi in scena durante la sua carriera, i film di Wes Anderson non possono ormai fare a meno di catapultarci nel campo di battaglia critico in cui si dibatte della bontà del suo cinema. Da una manciata di film a questa parte, compreso ovviamente La trama fenicia (2025), il confronto si è fatto sempre più aspro e gli schieramenti più distanti. Ciò non stupisce affatto, considerando quanto la sua poetica, già distintiva e insistita, sia divenuta, nel tempo, ancor più esibita ed esacerbata. Per molti, il regista texano si trova vittima di uno stallo creativo tale da scatenare una frenetica e superflua prolificità; per altri, invece, la sua recente produzione sembra tendere alla radicalità artistica propria di chi ha identificato, una volta per tutte, il vero fulcro del suo interesse. Nel caso di Wes Anderson esso non può che essere la famiglia: luogo perennemente conflittuale, eppure meta a cui ambire per raggiungere la pace interiore. È proprio attorno a questo perverso meccanismo che si articola l’ultima, come sempre ridondante e rocambolesca, narrazione andersoniana. La storia di Zsa-zsa Korda (Benicio del Toro), infatti, insieme a quella del suo spericolato piano edilizio, funge esclusivamente da contenitore per il tentativo di riconciliamento tra il protagonista e la figlia Liesl (Mia Threapleton), nel frattempo diventata suora e isolatasi dal resto della famiglia.
Nulla (narrativamente) di diverso da film come I Tenenbaum (2001) o Il treno per il Darjeeling (2007), ma tutto (stilisticamente) decisamente più ostentato. Un’evidenza sulla quale si fondano le critiche rivoltegli, che racchiude però l’essenza stessa del suo cinema. In particolare, il mondo-set imbastito da Anderson sembra ormai irrimediabilmente popolato da personaggi surrealmente statuari, secondo alcuni così inamovibili da risultare del tutto sprovvisti di vitalità. Eppure, è proprio questa atrofizzazione emotiva a essere divenuta lo strumento principe del regista per ritrarre la sua visione dell’istituzione familiare. Le sue creature si vengono a costituire come delle miniature, dei modellini – elemento profilmico da sempre centrale nelle sue opere – sostanzialmente indistinguibili tra loro perché plasmati a partire da un’unica matrice: sé stesso. L’omogenizzazione caratteriale porta i bambini ad assumere comportamenti adulti, a causa di un’infanzia come minimo anaffettiva, mentre, al contrario, gli adulti agiscono da perenni Peter pan, incapaci di comprendere e gestire le proprie emozioni.
Si spiega anche in questa maniera la sempre più esibita riottosità guerrafondaia, innervata però dalla giocosità dell’età infantile, che domina le sue opere. Un destino inesorabile, biblico addirittura – come affermato a più riprese nel film –, che porta necessariamente ogni situazione a terminare conflittualmente. Che siano partite di basket, scontri a fuoco, lotte contro sabbie mobili, ordigni esplosivi, dardi (infuocati e non), attentati terroristici di ogni sorta, avvelenamenti, zuffe più o meno pericolose, quest’infinita varietà di soluzioni tra il serio e il faceto reiterano fisicamente e narrativamente le difficoltà insite nelle relazioni familiari. Una serie di prove necessarie al raggiungimento dell’oggetto del desiderio: un focolare domestico. La forma si fa, in definitiva, senso.
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